di Cesare Crova Lo studio dell’architettura medievale, in particolare di quella fortificata, ha ricevuto negli ultimi quarant’anni un apporto fondamentale dall’analisi delle dinamiche insediative e delle tecniche costruttive, attenta alla natura materiale e tecnica del manufatto. L’indagine sugli svolgimenti che hanno determinato le fasi dell’incastellamento e lo studio delle tecniche edilizie che li accompagnano, ha permesso di acquisire un patrimonio di conoscenze utile sia da un punto di vista storiografico che alla conoscenza dei fattori politici, economici, sociali e culturali del fenomeno, sia dal punto di vista della conservazione. La datazione delle murature, soprattutto in architetture scarsamente documentate, è un argomento sul quale il dibattito è piuttosto ampio e necessita ancora di studi analitici che consentano di dare risposte affidabili sulle molteplici fasi di accrescimento degli antichi edifici. Da ciò deriva, in primo luogo, la necessità di svolgere un capillare censimento dei beni architettonici esistenti sul territorio, volto a conoscere, valutare e documentare tutto il patrimonio dell’edilizia storica, in particolare quella minore, minacciata dall’indifferenza e dalla speculazione. Con l’opera di Pierre Toubert sull’incastellamento nel Lazio meridionale e la Sabina, si è aperto un diverso modo di leggere il processo di formazione dei castra in età medievale, dandogli connotati strutturali, economici e sociali[1]. Il lavoro del Toubert, pur interessando una zona circoscritta d’Italia, è geniale per la descrizione del modello e degli effetti del grande accentramento, dove il castello, inteso quale circuito provvisto di mura, ha un ruolo centrale nella storiografia medievale, divenendo la spia per comprendere lo svolgimento nazionale, regionale e locale delle società del periodo[2]. É iniziata così una ricerca molto ampia nel campo delle fondazioni castrali, che ha generato una ricca e diversificata serie di contributi, da cui sono emerse le differenti fenomenologie che hanno guidato il processo di incastellamento su tutto il territorio nazionale. A questa, si sono aggiunti gli studi, in ambito toscano, di Tiziano Mannoni che ha aperto l’importante filone di ricerca sulla lettura stratigrafica degli elevati, a cui ha fatto seguito, in area laziale, quello promosso da Giovanni Carbonara che a partire dal 1996 ha visto produrre numerosi lavori, legati allo studio delle tecniche costruttive e della loro importanza ai fini della conservazione, aprendo così al ruolo multidisciplinare legato ai progetti di restauro. A questi, si aggiungono studi paralleli, condotti sia in ambito accademico, nelle Università del Molise, di Napoli “Suor Orsola Benincasa” e di Aversa “Luigi Vanvitelli”, che a livello centrale dal Ministero della Cultura, che hanno amplificato il dibattito in corso sulla storia urbana fra antichità e medioevo, sulle direttrici di scambi commerciali e delle produzioni in area mediterranea negli stessi periodi storici, proponendo contributi in particolare da giovani studiosi, indice dell’interesse che l’argomento possa avere un futuro promettente. Il lavoro sulle tecniche costruttive promosso nella scuola romana, nella sua ultima fase ha fatto da corollario a quello dell’indagine sull’incastellamento e trova un interessante punto di contatto con quello condotto da Alessia Frisetti nel territorio campano, già Terra di Lavoro, in continuità con quello realizzato da chi scrive per la parte laziale e alto campana della provincia normanna[3]. La Valle del Volturno nel Medioevo affronta lo studio del territorio che abbraccia, in particolare, le attuali provincie di Benevento, Caserta e Isernia, indagandone lo sviluppo sia dal punto di vista dell’incastellamento, che da quello delle tecniche costruttive, con l’occhio dell’archeologo, quindi attento sia allo studio diretto dei siti indagati, che indiretto con quello delle fonti d’archivio. Si delineano in questo modo dinamiche insediative che si ricollegano al resto del territorio nazionale, anche se con specifiche peculiarità. Le ricerche di tipo archeologico, associate a quelle storico-artistiche e architettoniche, tentando di procedere oltre queste ottiche, ancorché inglobandole, possono arricchire il patrimonio conoscitivo sull’architettura, sì da realizzare una concreta comunità di obiettivi. A tal fine, importanti sono i riferimenti sia al rilievo diretto delle fabbriche, sia al connesso esame attento, ravvicinato, di queste, avendo sempre presente il contesto e l’universo architettonico entro cui i singoli dati si collocano. Il lavoro, frutto delle ricerche di Alessia Frisetti, si concentrano su una porzione di territorio della Terra di Lavoro molto interessante dal punto di vista storico-culturale, ma ancora quasi del tutto inesplorato dalle campagne di indagine sui temi dell’analisi sull’incastellamento e delle tecniche costruttive. Emerge dalla lettura del testo, l’approccio di carattere generale, attraverso lo studio delle fonti cartografiche (I.G.M. e topografiche) che hanno permesso l’individuazione di 73 siti fortificati e 27 riferibili a insediamenti monastici, fino a giungere a quello di dettaglio, con le indagini diagnostiche per determinare la qualità dei molti campioni di malta prelevati, il cui studio è utile per riconoscere la qualità dei cantieri e delle maestranze che qui vi lavorarono, oltre che per il grado di conservazione, in vista di un possibile intervento di restauro. L’utilizzo degli strumenti informatici e delle tecnologie digitali più aggiornate, ha permesso attraverso la base GIS di inserire tutti i dati raccolti e poter delineare due grandi periodi cronologici, il primo dal tardo-antico all’alto medioevo (V-XI secolo), il secondo dall’epoca normanna a quella angioina (XI-XIV secolo). Dall’analisi così condotta, emergono differenti caratteristiche del paesaggio antropizzato. Nell’alto medioevo il territorio vulturnense è contraddistinto da comunità monastiche, attorno alle quali ruotano i territori che vengono coltivati e si organizzano le realtà insediative, con una gestione dei sistemi incastellati che presentano differenze sostanziali rispetto, per esempio, con i territori vicini, controllati dall’Abbazia di Montecassino, dove viceversa si avevano dei castelli, intesi quali insediamenti al cui interno, riprendendo gli assunti del Wickham, si accentrarono le popolazioni che in precedenza vivevano in siti sparsi. La loro formazione fu favorita dall’espansione agraria, facendo nascere ambiti amministrativi in cui si sviluppò un’urbanistica locale, contraddistinta dall’edilizia in pietra, con la presenza di luoghi di culto, magazzini, mercati e, nei castelli di maggiori dimensioni, di tribunali[4]. Nel periodo successivo, quello dello sviluppo degli insediamenti, molte informazioni è stato possibile desumere dallo studio delle fonti, come il Catalogus Baronum e il suo Commentario, ma anche da quelle quali l’Ystoria Rogerii regis Sicilie, Calabrie atque Apulie, redatta da Alessandro Telesino, dove sono raccolte le operazioni politiche e militari di Ruggero II nella prima metà del XII secolo. La connessione tra fonti scritte e siti indagati, che per questo periodo danno risultati più cospicui, permettono di comprendere le dinamiche insediative promosse dal popolo normanno, che si dovettero confrontare con realtà consolidate, per la presenza di signorie longobarde, oltre alla persistenza di alcune compagini musulmane, gruppi bizantini e franchi[5]. L’avvento normanno genera una diversa formazione degli insediamenti, che da fortificazioni urbane, portano alla formazione di una rete di fortificazioni distribuite nelle aree rurali. Si delineano due fasi: ad una prima, caratterizzata da insediamenti di carattere feudale, dominato dalle famiglie comitali, che in alcuni casi cederanno a vario titolo le loro proprietà ai grandi complessi monastici di Montecassino e San Vincenzo al Volturno, se ne associa una seconda, nella quale Ruggero II delineerà un sistema di presidi posti direttamente sotto il controllo regio, caratterizzati dalla presenza di guarnigioni che avevano le proprie dimore in prossimità dell’insediamento[6]. Esempi emblematici, tra quelli indagati, sono il castello di Rupecanina (Figg. 1-2), di cui resta ancora pienamente leggile la stratificazione dell’impianto urbano, con il doppio perimetro di mura e il mastio, e la città di Alife, dove l’intervento normanno si inserì sulla preesistenza della città romana, che ancora oggi conserva l’impianto planimetrico originario, con il cardo e il decumano, delimitata ora dalle mura fortificate medievali. Caratteri morfologici e costruttivi che la mettono in continuità, per esempio, con un’altra città romana, Fondi, che conserva a sua volta gli stessi elementi oltre che, singolarmente, lo stesso orientamento planimetrico, con l’asse inclinato verso ovest rispetto al nord geografico[7] (Figg. 3-4). Con l’avvento al potere di Federico II di Svevia, la rete dei castelli, costruiti soprattutto nel XII° secolo, nel corso della signoria normanna, è ora ereditata dall’Hoenstaufen e inglobata nella nuova amministrazione. La rete castrale non aveva una distribuzione omogenea sul territorio e le rocche si differenziavano per le diverse tipologie architettoniche. Il disegno federiciano di riconquista della Terra di Lavoro fece leva essenzialmente sui castelli di Napoli, Aversa e Gaeta, senza preoccuparsi di ridefinire il dispositivo militare lungo il confine, dato che i rapporti concilianti con la Curia romana non inducevano a considerare impellente l’operazione[8]. In questo contesto, utile per delineare lo stato di conservazione dei castelli del dominio svevo è lo Statutum de Riparatione Castrorum, redatto a iniziare dal 1231, dove si delinea chi dovesse occuparsi della riparazione, oltre che dei castelli veri e propri, anche delle domus e dei palacia. Con Federico II sono potenziati numerosi fortilizi o ne sono costruiti ex novo per definire una linea visuale di collegamento, come per esempio con le rocche di Casertavecchia, Maddaloni e San Felice a Cancello, e molte le testimonianze di strutture fortificate attribuibili direttamente all’Hoenstaufen, come, tra gli altri, il mastio pentagonale di Rocca Janula, prossima a Montecassino, la Porta del Regno, a Capua, la torre quadrata del palazzo di Maddaloni. Il lavoro di Alessia Frisetti, che, lo ricordiamo, parte dalla sua tesi di dottorato[9], si conclude agli inizi del XIV secolo, con l’avvento degli angioini nella dominazione del Regno e nelle conclusioni coglie la continuità che si osserva tra l’architettura normanna e quella sveva, anche se, aggiungiamo noi, ci saranno elementi tecnico costruttivi di novità propri dell’architettura federiciana[10], così come tra quest’ultima e l’architettura angioina, almeno del primo periodo. Sintesi del passaggio dall’architettura normanna a quella angioina, con elementi di continuità e discontinuità, lo si osserva nella Roccaguglielma, a Esperia in provincia di Frosinone, in un territorio tangenziale quello indagato dalla Frisetti, che racchiude in sé i caratteri costruttivi delle tre diverse dinastie che si succedettero nella dominazione del Regno. Il testo si arricchisce, infine, di 73 schede sugli insediamenti fortificati delle tre provincie indagate, 27 tra edifici religiosi e insediamenti monastici e 6 edifici civili, dove sono riassunti gli elementi principali dei siti indagati. Si passa dalla descrizione, alla sintesi dei dati storici desunti dalle fonti scritte, accompagnando la scheda da un breve regesto bibliografico e delle fonti, così da dare quelle informazioni di partenza utili a chi volesse, in seguito, approfondire studi specifici e sistematici. In conclusione, con il lavoro di Alessia Frisetti si gettano le basi per un futuro approfondimento, per indagare le aree non trattate quali le provincie di Avellino, Napoli e Salerno, il cui patrimonio culturale è molto ricco [basti ricordare il sito ancora molto ben conservato di Avella (Fig. 5) in provincia di Avellino], ma ancora non interessato da studi sistematici sull’incastellamento e sulle tecniche costruttive qui impiegate. Questo testo si auspica rappresenti il fondamentale punto di partenza. [1] P. Toubert, Les structures du Latium méediéval. Le Latium méridional et la Sabine du XIe siècle à la fin du XIIe siècle, Roma 1973. [2] C. Wicham, A che serve l’incastellamento?, in «L’incastellamento», Actes des rencontres de Gérone (26-27 novembre 1992) y de Roma (5-7 mayo 1994), a cura di M. Barcelò, P. Toubert, École Française de Rome: Roma, pp. 31-41, (Publications de l'École Française de Rome, 241). [3] C. Crova, Insediamenti e tecniche costruttive medievali. Il Latium adiectum e la Terra Laboris, Pubblicazioni Cassinesi: Montecassino 2005 (Archivio Storico del Lazio meridionale. Monografie, 1). La Terra di Lavoro fu la più longeva fra le provincie che i normanni istituirono dopo il loro arrivo nell’Italia meridionale, nel XII secolo. Fu solo con il Regio decreto-legge 2 gennaio 1927, n. 1, pubblicato nella G.U. n. 49 del 1° marzo successivo, che la provincia fu soppressa aggregando alcuni comuni alla provincia di Roma e altri (Carinola, Mondragone e Sessa Aurunca) a quella di Napoli, cfr. C. Grossi, Il Golfo di Gaeta. Valle del Garigliano, Spiaggia di Scauri, “Formiae litus”, Vendicio, Serapo, Tipografia del Senato: Roma 1927, p. 69. [4] C. Wicham, A che serve l’incastellamento, cit., p. 33. [5] A. Frisetti, La valle del Volturno nel Medioevo. Paesaggi, insediamenti e cantieri, Volturnia Edizioni: Cerro al Volturno 2020, p. 66. [6] E. Cuozzo, Quei maledetti Normanni. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Guida Editore: Napoli 1989, p. 84. [7] C. Crova, Lo sviluppo urbanistico di Fondi nel Medieovo, in Fondi nel Medioevo, Atti del convegno internazionale di studi (Fondi, Palazzo Caetani, 17-18 ottobre 2013), a cura di M. D’Onofrio, M. Gianandrea, Gangemi Editore: Roma 2016, pp. 79-90: 84 e 85 fig. 5. Come Fondi e Alife, altre città romane presentano lo stesso orientamento nord-ovest/sud-est: Alba Fucens, Aquileia, Cremona, Mutina (Modena), Ariminum (Rimini), Sepinum, Verona, cfr. N. Cassieri, D. Quadrino, Uno scavo urbano: nuovi elementi per l’urbanistica di Fondi, in La forma della città e del territorio, in «Atlante tematico di topografia antica», XV (2006), pp. 177-193: 178. [8] P.F. Pistilli, Castelli federiciani in Terra di Lavoro: dalla conquista del territorio alla difesa dei confini (1220-1239), in Mezzogiorno-Federico II-Mezzogiorno, Atti del Convengo internazionale di Studio promosso dall’Istituto Internazionale di Studi federiciani, Consiglio Nazionale delle Ricerche (Potenza-Avigliano-Castel Lagopesole-Melfi, 18-23 ottobre 1994), a cura di C.D. Fonseca, tomo I, Edizioni De Luca: Roma 2000, pp. 281-316: 283-84. [9] A. Frisetti, Dall’atlante delle tecniche murarie alla conoscenza culturale ed economica di un “territorio di confine” nella Langobardia Minor. Chiese, castelli e case nella Media Valle del Volturno, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Dottorato di Ricerca in archeologia, XXVIII ciclo, a.a. 2015/2016. [10] C. Crova, Echi della tradizione romana e bizantina nell’architettura del Medioevo meridionale tra normanni e svevi, Atti del convegno internazionale di studi La difesa militare bizantina in Italia (sec. VI-XI), a cura di F. Marazzi, C. Raimondo, Volturnia Edizioni: Cerro al Volturno, i.c.s.
di Antonio Ciaschi Il libro in recensione nasce a seguito di un confronto tra studiosi di varie discipline organizzato lo scorso 6 dicembre 2018 in occasione dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale. In questi ultimi decenni le politiche di valorizzazione di queste preziose testimonianze del passato sono state centrali nelle politiche di sviluppo dell’Unione Europea con un duplice fine: da una parte si è incoraggiata l’affermazione di una identità rispettosa delle singole diversità culturali che compongono il mosaico geopolitico continentale e dall’altra si sono potuti innescare virtuosi processi di sviluppo territoriale, come ad esempio il turismo culturale.
di Maria Venuso «Il Seicento non s’identifica con nessuna grande forma culturale, neppure con il Barocco, come spesso si fa. Esso è piuttosto un assai complesso periodo d’intensa gestazione civile o, come oggi si amerebbe dire, “un laboratorio”, in cui i frammenti di una forma epocale trascorsa, il Rinascimento, vengono agitati in un potente frullatore sperimentale, per essere restituiti composti in nuova forma, la civiltà dei “lumi”, all’ormai matura razionalità critica e ai nuovi travagli che fatalmente le toccano». Questo l’incipit della Prefazione di Aldo Masullo alla Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Seicento; al grande filosofo è toccato – per usare ancora una volta le sue parole – il «privilegio di salutare per primo» questi due imponenti tomi, poco prima che salutasse egli stesso, per sempre, la comunità scientifica tutta, impreziosendo ancor più questa ricchissima pubblicazione a cura di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione (Turchini Edizioni 2020) [1].
di Francesco Lofano Lo studio del collezionismo nella Roma del XVII secolo è, com’è noto, campo di articolate e vaste ricognizioni storiografiche. Eppure, curiosamente, tre figure significative per la formazione e la stessa genesi del fenomeno collezionistico sono rimaste sullo sfondo: il riferimento va al maggiordomo, al “maestro di casa”, al “guardaroba”. Chi sono costoro?
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Tomaso Montanari, storico dell’arte e docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Federico II di Napoli, è da sempre impegnato nella riappropriazione del sapere critico della storia dell’arte, irretita ormai da diversi anni nell’industria dell’intrattenimento culturale e vittima e strumento dei media e della politica. In sole 150 pagine affronta uno dei dibattiti contemporanei più accesi sul bene comune, rispondendo alle domande più frequenti e preoccupandosi, ancor prima d’intervenire con il proprio personale parere, d’informare il pubblico sul perché della sua presa di posizione. |
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