di Madison U. Sowell Quando, alla fine degli anni ’70, da dottorando in lingue romanze all’Università di Harvard, sposai Debra Hickenlooper, una storica della danza, non potevo immaginare che a un certo punto della mia carriera accademica avrei spostato il focus della mia ricerca da Dante alla danza.1 Né mi rendevo conto che io e Debra saremmo diventati nel giro di pochi anni appassionati collezionisti di iconografia della danza precedente il 1870 e che una delle nostre aree privilegiate sarebbe stata il balletto ingiustamente trascurato che ha avuto luogo durante il Secondo Impero francese (1852-1870), in particolare la storia che di esso mostrano molte cartes-de-visite photographiques (biglietti da visita fotografici) di ballerine e ballerini. La mania del collezionismo iniziò in modo alquanto innocente, allorquando ricevemmo come regalo di nozze da un’eccentrica zia che commerciava in antiquariato una bella litografia del XIX secolo di Marie-Alexandre Alophe (1812-1883). Colorata a mano, la piccola stampa raffigura una vivace scena di danza di società e io la trovai affascinante. Ciò che è più significativo, mi resi conto che il regalo piacque moltissimo anche a mia moglie la quale aveva da poco collaborato alla catalogazione della Collezione George Chaffee presso la Harvard Theatre Collection, che comprende incisioni realizzate da Jean Bérain pére di artisti di corte francesi. Era stato proprio ad Harvard, mentre era stagista sotto la guida di Jeanne Newlin, direttrice della Harvard Theatre Collection, che Debra aveva avuto occasione di conoscere Edwin Binney 3rd, Honorary Curator of Ballet e inveterato collezionista, la cui metodologia di ricerca ci avrebbe suggerito un modello per la nostra collezione. Poco dopo, mentre Debra (che divenne mia moglie nel 1977) e io trascorrevamo la luna di miele a Firenze, in un appartamento incantevole a Borgo San Iacopo prospiciente l’Arno e Ponte Vecchio, ci imbattemmo per caso in un’anziana contessa italiana, Daisy Mei Gentilucci, che avrebbe vissuto fino alla veneranda età di 96 anni. L’affascinante contessa collezionava e vendeva stampe antiche e introdusse noi sposini al mondo delle acqueforti di epoca barocca e delle incisioni di spettacoli teatrali, incluse quelle dei balletti equestri eseguiti per le feste medicee. Negli anni che seguirono il nostro soggiorno fiorentino, Debra e io tornammo quasi ogni anno in Europa, a volte per condurre ricerche in biblioteche o archivi, spesso per accompagnare gruppi di studenti universitari, sempre alla ricerca di stampe di danza teatrale nei mercatini e nei negozi di antiquariato. Nel giro di circa un decennio, una miriade di rivenditori di libri e stampe era alla ricerca di immagini del balletto e di libri di feste da offrirci per la nostra collezione. Primi in Italia furono la contessa Gentilucci e Raffaele Falteri a Firenze; Carlo Alberto Chiesa, Luca Pozzi ed Enrico Vigevani a Milano; Arturo e Umberto Pregliasco a Torino; in Francia, la formidabile libraia parigina Gilberte Cournand, anche critico di danza; in Inghilterra, dove in tre diverse occasioni ebbi occasione di dirigere un centro universitario a Londra, i nostri fornitori erano una legione: tra i tanti, Keith Cavers, Lisa Cox, Rosslyn Glassman, Valerie Harris, Marina Henderson e Christel Wallbaum. Quando eravamo negli Stati Uniti, potevamo sempre contare su Gordon Hollis, John e Jude Lubrano e sullo scomparso Norman Crider col suo fedele partner Tobias Leibovitz per rintracciare stampe rarissime. Ci siamo sempre trovati ad avere rapporti più o meno ravvicinati con altri seri appassionati di danza e balletto in diversi Paesi. Tra di loro vorrei ricordare il collezionista John Gill in Inghilterra, il coreografo John Neumeier in Germania e il critico musicale Jan Stanislaw Witkiewicz in Polonia, per non parlare dei compianti John M. Ward nel Massachusetts e Mary Ann Malkin a New York. Quando le collezioni di Parmenia Migel Ekstrom (1908-1989) e di George Verdak (1923-1993) furono messe in vendita all’inizio degli anni ’90, abbiamo potuto riempire molte lacune, alcune delle quali ci erano note solo per aver consultato i cataloghi delle collezioni. Al tempo delle vendite di Ekstrom e Verdak, le linee-guida della nostra collezione di iconografia della danza teatrale erano ormai stabilite da tempo. Abbiamo sempre creduto che l’immagine di un ballerino o di una ballerina, stampata su un foglio o altro supporto, possa trasmettere informazioni considerevoli sulla danza delle epoche passate, nonostante gli ovvi limiti insiti in un mezzo bidimensionale. Inoltre tali immagini statiche spesso suggeriscono connessioni tra l’arte tersicorea e le altre arti, musica, teatro, pittura e costumi, nonché con la società nel suo complesso. La sfida per lo storico culturale sta nell’identificare e decifrare gli indizi che a volte sono ovvi, ma spesso sottili. Con queste premesse ben presenti, per quattro decenni e mezzo Debra e io abbiamo collezionato stampe antiche (ad es. xilografie, incisioni e litografie), dipinti e acquerelli, disegni di costumi per balletti, copertine illustrate di spartiti musicali, ventagli, statuette, cartes-de-visite e altri tipi di fotografie d’atelier, nonché oggettistica assortita, riguardanti un numero incalcolabile di ballerini fino ad allora conosciuti solo di nome. La nostra raccolta iconografica della danza abbraccia il periodo che si estende dal Rinascimento all’alba del variety show, cioè dai primi anni ’90 del XV secolo, quando Hartmann Schedel pubblicava xilografie di coppie danzanti nella sua celebre Cronaca di Norimberga, alla fine degli anni ’60 del XIX secolo, quando diverse ballerine romantiche, anche italiane, si esibivano negli Stati Uniti nel Black Crook (Il bandito nero) e in The White Fawn (Il cerbiatto bianco). Le nostre prime opere, pertanto, sono xilografie attribuite a Michael Wolgemut (1434-1519), maestro di Albrecht Dürer, mentre le ultime stampe sono state realizzate da diversi litografi romantici, tra cui i famosi Alfred Edward Chalon (1780-1860), Achille Devéria (1800-1857), John Brandard (1812-1863) e Nathaniel Currier (1813-1888). Alcune centinaia di copertine di spartiti di musica da ballo d’epoca vittoriana, un certo numero di immagini di balletti e di fotografie (tra cui cartes-de-visite e fotografie stereoscopiche) completano la nostra collezione di stampe di danza. Ciò che è più importante per la storia della mia monografia di imminente pubblicazione da Kinetès Edizioni è il fatto che la collezione include oltre 600 cartes-de-visite che il famoso fotografo francese André Adolphe Eugène Disdéri (1819-1889), autore inter alia di Manuel opératoire de photographie sur collodion instantané (Nîmes, 1853), realizzò di ballerine e ballerini che si esibirono principalmente all’Opéra di Parigi, ma anche su altri palcoscenici della capitale francese. Si tratta di danzatrici e danzatori, quasi tutti identificati per nome e, quando ritratti in costume, anche per balletto o divertissement a cui hanno preso parte. Benché la nostra raccolta di circa 4.000 stampe e fotografie non pretenda di essere esauriente (né potrebbe mai esserlo), molte di queste immagini riguardano molti dei più importanti spettacoli messi in scena dal XV secolo agli ultimi decenni del XIX secolo. Come suggerisce il titolo, Disdéri’s Dancers and Carte-de-Visite Ballet Photography in the French Second Empire, il mio libro mette a fuoco un numero insolitamente grande di danzatori, uomini e donne, molti dei quali non erano ‘primi ballerini’ o solisti, ma membri del corpo di ballo dell’Opéra di Parigi, appartenenti alle tre cosiddette quadrilles, o coryphées, cioè solisti minori che guidavano il corps de ballet (composto soprattutto di donne), durante il regno di Napoleone III, periodo conosciuto come Secondo Impero. Tra questi ballerini vi erano le cosiddette rats (topolini) dell’Opéra, giovani allieve della scuola di ballo del teatro oppure membri femminili del corps de ballet. Erano coloro a cui guardavano con cupidigia i cosiddetti abonnés, gli abbonati ai palchi dell’Opéra, aristocratici o comunque appartenenti alle classi sociali alte, presumibilmente anche di gusti assai selettivi. Molti di loro erano iscritti al Jockey Club, un circolo esclusivamente maschile. Nella seconda metà del XIX secolo i giornali avevano rubriche dedicate a chiacchiere di vario tipo, che attraevano i lettori con storielle succulente su presunti legami di alcune danseuses. Già nel 1847, in The Natural History of the Ballet-Girl, Albert Smith aveva provato a correggere l’idea diffusa che caratterizzava gli uomini che andavano ad assistere a spettacoli di ballo. Quegli uomini, scrisse, “quando si trovano sopra alla fossa d’orchestra, immaginano di dover fare l’occhiolino a un rat, per essere immediatamente accettati come ammiratore, e pensano che ogni donna che ha intrapreso la carriera teatrale appartenga, senza eccezioni, alla stessa categoria”.[2] Nonostante gli sforzi di Smith per chiarire la realtà degli orari di lavoro estenuanti della maggior parte delle componenti del corps de ballet, che non rendevano possibili eccessive distrazioni, i racconti sull’abiezione morale delle ballerine non si interruppero. Proprio due decenni dopo la fine del Secondo Impero, il conte Albert de Maugny, sotto lo pseudonimo Zed, pubblicò una raccolta di memorie licenziose dal titolo Le Demi-monde sous le Second Empire: Souvenirs d’un sybarite.[3] Il libro era articolato in sezioni dedicate a famose “cortigiane” (courtisanes), attrici, ballerine e ai mediatori che arrangiavano i loro appuntamenti. Ancora, nel 1994, Rupert Christiansen scriveva: “L’Opéra, aveva, così si sussurrava, la delicata funzione di operare come il più bel bordello di Parigi, quello in cui l’Imperatore possedeva la sua loge intime, la sua stanza privata. Il salone del teatro era il Foyer de la Danse, una stanza male illuminata, piena di specchi e di decorazioni in cui le ragazze si riscaldavano alla sbarra prima dello spettacolo”.[4] Indubbiamente molte ballerine provenivano dal basso ceto e lavoravano, come del resto i loro genitori, sei giorni alla settimana. Cercavano così di arrotondare i loro proventi in questo modo. Recentemente, tuttavia, la vecchia convinzione che queste ragazze facessero tutte parte del demi-monde è stata messa in discussione.[5] Nel 2014, ad esempio, Lorraine Coons ha messo in dubbio che queste giovani ballerine fossero tutte assolutamente “avventuriere frivole e superficiali in cerca di migliorare la loro posizione sociale conquistando il cuore (e il portafoglio) di ricchi signori”.[6] Di fatto, come i lettori del mio libro constateranno, queste giovani ballerine divennero, per la gran parte, serie artiste e molte di loro ebbero rapporti, intese o matrimoni che assicurarono loro protezione e vari gradi di benessere e rispettabilità sociale. Il mio libro mira dunque in gran parte a correggere, spero in modo definitivo, un errore, restituendo per intero nome e identità a tante danzatrici che hanno sofferto di un’ingiusta e spesso stereotipata nomea anzitutto da parte di contemporanei come ad esempio i disegnatori Gustave Doré (1832-1883) e Victor Coindre (1816-1893), che nelle loro opere ritrassero il corps de ballet come un gruppo di giovani donne tutte identiche l’una all’altra in preda di uomini che erano poco più che famelici ‘gatti’ travestiti. Basti pensare alla litografia di Doré dal titolo Rats (d’Opéra), in cui le ragazze del corpo di ballo restituiscono lo sguardo agli uomini che le fissano, uno dei quali ha, appunto, lineamenti felini. In una copertina di spartito di Coindre, le ballerine hanno la testa di topolino e gli uomini hanno i volti di gatti. In molti modi questo mio libro enciclopedico permette di conoscere una storia più completa della carriera professionale e della vita personale di ragazze che hanno lottato con maggiore o minore senso di disciplina per padroneggiare il loro mestiere e per raggiungere vari livelli di successo e notorietà durante il Secondo Impero. Similmente, i miei profili biografici degli uomini che danzarono all’Opéra durante il Secondo Impero permettono di smentire la diffusa convinzione che essi erano poco più che atletici porteurs la cui funzione, come dice appunto questo termine, era quella di sollevare e portare le ballerine tra le braccia su e giù per il palcoscenico.[7] Con l’età, molti di loro divennero bravi mimi in un tipo di balletto che, è da ricordare, includeva all’epoca molte scene mimiche. Tutti loro dovevano padroneggiare la tecnica detta ‘di carattere’ per eseguire molte danze nazionali. Comunque il ruolo del danzatore fu oggetto di grande discussione in tutto l’Ottocento e molti lettori resteranno sorpresi nel sapere quanto spesso le ballerine si esibivano vestendo abiti maschili, ovvero, come si diceva, en travesti. Su questo aspetto tanto controverso Rita Sangalli (1849-1909), una prima ballerina italiana che divenne un’étoile dell’Opéra e più tardi una stella de The Black Crook negli Stati Uniti, scrisse nel 1875 che le opinioni sul ruolo dell’uomo nel balletto erano di due tipi: “C’è chi vuole che l’uomo ci sia a tutti i costi; e c’è invece chi lo esclude del tutto. Alcuni ritengono che un danseur sia adatto ai ruoli solistici. Altri vogliono che venga sostituito, per sempre con ballerine en travesti. La mia opinione è che nel balletto l’uomo è assolutamente necessario”.[8] Che venisse ritenuto necessario o no da giornalisti o abonnés, i danzatori continuarono a esibirsi sulla scena dell’Opéra per tutta la durata del Secondo Impero. Alcuni danzavano pas de deux; la maggior parte rivestiva ruoli di carattere, di mimo e, se richiesto, di porteur. La maggior parte dei danzatori di ambo i sessi di cui risulta nel mio libro un profilo biografico lavoravano nei ranghi che andavano dalla terza ‘quadrille’ (il livello più basso) a coryphée (solista minore). Alcuni, come Blanche Montaubry e Léontine Rousseau, riuscirono a diventare sujets. La famosa ballerina Emma Livry, d’altra parte, non danzò mai nelle quadrilles e debuttò direttamente come étoile. Lo stesso fece Marie Vernon. Alcune danzatrici, come Berthe De Marconnay e Henriette Georgeault, per non parlare della grandissima ballerina romantica Maria Taglioni, sposarono dei nobili e dei ricchi industriali e divennero madri di titolati aristocratici. Altri, come, Fanny Cerrito e Alfred Chapuy, sposarono i loro partner e vissero con loro un matrimonio infelice. Almeno uno di loro, però, Louis Mérante, fu sposo felice della sua partner, la danzatrice di origine russa Zina Richard. Altre ballerine, come Giuseppina Bossi, Emma Brach e Irma Carabin, entrarono a far parte del demi-monde ed ebbero varie relazioni registrate segretamente dalla polizia nei suoi archivi. Almeno una danzatrice, Laure Fonta, divenne una studiosa di danza di valore, mentre altri ballerini, come Caroline Lassiat e Lucien Petipa alla fine della carriera divennero apprezzatissimi insegnanti di danza e di mimica. Alcune ballerine morirono giovani, come Caroline Piquart, che morì a 16 anni. Giuseppina Bozzacchi, una protégée della prima ballerina Amina Boschetti, creò il ruolo di Swanilda nel balletto Coppélia dell’importante compositore Léo Delibes e spirò al mattino del suo diciassettesimo compleanno. Pauline Bourguignon morì ventenne, pochi mesi dopo aver dato alla luce un bimbo illegittimo. Marie Jousset morì di una debilitante artrite reumatoide a 22 anni. Almeno una ballerina, Virginie Maupérin, morì di parto (a 26 anni). Altre, come Blanche Alexandre e la famosa Amalia Ferraris, ebbero vite lunghe e prosperose dopo la fine della carriera. Ci fu chi, come Fanny Génat e Brunette Wal, nonostante il successo in teatro, finì in miseria o sopravvisse grazie alla generosità di altri. Mentre la maggior parte delle danzatrici proveniva da una famiglia cattolica, altre (come le Brachs, Adèle Nathan, e la già menzionata Wal) erano di religione israelita. Di contro, Martha Muravieva era una devota ortodossa. Parecchie famiglie (ad esempio i Fiocre, gli Jousset, i Malot, i Marquet, i Maupérin, i Mérante, i Parent ed i Volter) avevano più di un figlio o di un altro componente che studiava danza o che si esibiva contemporaneamente in teatro e questo portò a creare numeri successivi che venivano aggiunti al cognome per distinguere una persona dall’altra. Nel loro insieme, le storie e le immagini fotografiche di questi danseurs e danseuses hanno giocato un ruolo cruciale e spesso sottovalutato non solo nella storia della danza, ma anche nella storia culturale della Francia e dell’Europa occidentale durante il periodo del Secondo Impero francese. I loro salari documentano enormi diseguaglianze tra artisti di teatro uomini e donne, un fenomeno che era vero 150 anni fa e che, ahimè, perdura tuttora. Le loro fotografie rivelano, tra l’altro, il modo in cui i disegni dei costumisti, molti dei quali si sono sorprendentemente conservati sino ad oggi, servirono da modello per la realizzazione di costumi di vari tessuti e lunghezze. Théophile Gautier, il critico di danza francese che più di ogni altro ebbe da dire sul balletto a Parigi durante il Secondo Impero, scrisse a lungo anche su come potesse definirsi il rat in relazione alle ballerine dell’Opéra. In uno scritto dal titolo Le Rat, pubblicato nel 1866, individuò les rats non nelle ballerine del corpo di ballo (coloro che appartenevano alle tre quadrilles), ma nelle giovanissime allieve della scuola dell’Opéra che si preparavano a diventare ballerine a tempo pieno.[9] Colei che per Gautier era le rat, altri la chiamavano petit rat e appariva in scena solo nelle scene di massa. Gautier scrisse: All’Opéra si definiscono rat le ragazzine destinate a diventare danzatrici e che si vedono contro il fondale, in lontananza, nei voli, nelle apoteosi e in tutte quelle situazioni in cui la loro piccola taglia può spiegarsi per via della prospettiva. L’età del rat varia dagli otto ai quattordici o quindici anni. Un rat di sedici anni è già vecchissimo, è un topo chic, un topo bianco; è la maggiore vecchiezza a cui possa arrivare, i suoi studi sono più o meno terminati, debutta in un pas da solista, il suo nome figura nelle locandine a lettere maiuscole. Diventa una tigre, e poi premier sujet, deuxième o troisième sujet, e coryphée, a seconda dei suoi meriti e delle protezioni su cui può contare.[10] Il fatto che un finanziatore dell’Opéra denominasse un’allieva (di non più di quindici anni di età) rat o petit rat era prova del medesimo fenomeno già rappresentato: significava trattare una donna come un oggetto (in questo caso un affamato roditore) piuttosto che come una persona con un nome e una identità. La stessa reificazione appare nelle epigrafi che precedono le biografie delle ballerine nel mio libro, specialmente in quelle descrizioni che ne mettono a fuoco le caratteristiche fisiche. Le epigrafi evidenziano i modi in cui erano viste o commentate le ballerine. Nel trascriverle, il mio intento è stato quello di mostrare ciò che i critici (per lo più maschi) dell’epoca, e non solo gli abonnés e i finanziatori, pensavano dei danzatori dell’Opéra, donne e uomini. Ognuna delle circa cento biografie del mio libro cerca tuttavia di spiegare la realtà che sta dietro all’epigrafe e descrive la vita personale e la carriera professionale della ballerina o del ballerino, non trascurandone i guadagni (che fossero alti o bassi), e fornendo uno schizzo della loro personalità tramite certe vicende della loro vita e qualche aneddoto. La mia ricerca sui danzatori fotografati da Disdéri si basa su tre tipi di fonti primarie: la nostra vasta collezione di cartes-de-visite che li ritraggono; i dossier che li riguardano e che sono conservati negli archivi dell’Opéra di Parigi; i libretti di ballo e programmi dell’800, per non menzionare una grande mole di recensioni degli spettacoli in cui quei ballerini danzarono e che sono state pubblicate su quotidiani e riviste. La prima fonte è evidentemente la straordinaria raccolta di centinaia di cartes-de-visite di ballerine e ballerini, che fanno parte della Collezione Sowell. La grande maggioranza di esse proviene dal mercante parigino di fotografie Bruno Tartarin, la cui galleria online comprende oltre 300.000 scatti. Tartarin ci ha offerto un gran numero di cartes-de-visite appartenute alla leggendaria collezione di Maurice Levert (c. 1856-1944), segretario del principe Victor Napoléon (1862-1926), pretendente bonapartista al trono francese dal 1876 alla sua morte, avvenuta mezzo secolo più tardi. Mentre la maggior parte degli archivi dei fotografi francesi è scomparsa molto tempo fa, quello di Disdéri si è salvato grazie al generale Léopold Rebora (nato nel 1843), che a sua volta lo lasciò al suo amico Maurice Levert, figlio di Alphonse Levert (1825-1899), prefetto durante il Secondo Impero e più tardi député di Pas-de-Calais.[11] Accidentalmente rimasto orbo di un occhio, Maurice fu esonerato dalla carriera militare ma, siccome la sua famiglia era molto benestante, poté acquistare un’importante collezione di uniformi militari, armature, bandiere e mostrine. Allo stesso tempo sviluppò una nostalgia per il Secondo Impero lavorando come segretario privato del Principe Victor, dando vita a una vasta biblioteca e collezionando ritratti fotografici di personalità vissute durante quel periodo. Alla morte di Maurice, nel 1944, la documentazione relativa alla sua attività militare passò al Musée de l’Armée di Parigi, ma gli oltre 90 album di fotografie di Disdéri andarono alla sua famiglia, nelle cui mani rimasero per oltre 50 anni. La Collezione Maurice Levert di 91 album di cartes-de-visite fu venduta all’asta all’Hôtel Drouot di Parigi il 28 gennaio 1995.[12] Mentre la maggior parte degli album fu acquistata da musei francesi, tra cui il Musée d’Orsay, e rimasero intatti, alcuni vennero acquisiti da mercanti privati e vennero rivenduti nella loro interezza oppure furono smembrati. Nell’ultimo quarto di secolo, singole cartes-de-visite sono state catalogate e poi vendute a collezioni private o pubbliche. Ciò che distingue le cartes-de-visite di Disdéri provenienti dalla Collezione Levert è che la maggior parte di esse presenta sul retro la scritta in inchiostro del nome del danzatore e/o della danzatrice oggetto del ritratto, nonché un numero d’archivio, che è lo stesso del negativo o della lastra originale con cui è stata realizzata la fotografia. In qualche caso, sono registrati anche il teatro e il titolo del balletto o del divertissement in cui la persona ritratta ha danzato. Ciò che si è rivelato prezioso per la mia ricerca è il fatto che l’assistente di Disdéri annotò nel registro dei clienti anche le date in cui furono realizzati i negativi. Quando il numero del negativo è noto, si possono datare le fotografie dal n. 4002 (settembre 1857) al n. 51.447 (febbraio 1865). Il registro era conservato da un collezionista privato, ma la studiosa americana che per prima ha lavorato sulle cartes-de-visite di Disdéri, Elizabeth Anne McCauley, poté consultarlo.[13] Questo le permise, in una pregevole appendice del suo libro su Disdéri, di precisare il mese e l’anno corrispondente al numero di negativo della fotografia, numero che era stato attribuito a ogni lastra di vetro da 8 scatti fotosensibile al collodio. Ad esempio, i negativi dal n. 24254 al n. 25908 vennero realizzati tra il primo febbraio e l’11 aprile e i numeri dal 25909 al 27499 tra l’11 aprile 1861 e il maggio di quello stesso anno. Anche quando la carte-de-visite proveniente dalla Collezione Levert non riporta il titolo del balletto, il nome della ballerina o del ballerino e il numero del negativo (che aiuta a collocare entro pochi mesi la data in cui la fotografia fu scattata) hanno reso molto più facile il lavoro investigativo necessario a identificare l’opera in cui la persona ritratta ha danzato. E questo per un semplice fatto: i ballerini che posano in costume erano stati fotografati in un periodo da due a quattro mesi dal debutto del balletto, cioè prima che i costumi fossero riciclati per un altro spettacolo. I ballerini che avevano danzato assieme nello stesso ballo tendevano a recarsi assieme dal fotografo, portando con sé non solo il costume che avevano indossato in quella occasione, ma anche semplici oggetti di scena utilizzati per lo spettacolo. Lo studio della sequenza delle lastre numerate ha permesso di raggruppare le fotografie secondo la data in cui i ballerini si recarono nell’atelier del fotografo. Il raffronto tra le fotografie in cui apparivano gli stessi oggetti di scena ha reso più semplice individuare gli specifici balletti per i quali erano stati prodotti i costumi che i ballerini indossavano. Ogni conclusione relativa al costume creato per i balletti è stata riscontrata, quando possibile, sulla base dei costumi contenuti nel grande deposito esistente presso la Bibliothèque Nationale de France. Molti di essi sono visibili online e sono citati nella seconda parte del mio volume. La seconda fonte primaria del mio libro consiste nei documenti archivistici trovati nei dossier e nelle pratiche personali intestati ai ballerini dell’Opéra, tutti conservati presso il Musée-Bibliothèque de l’Opéra. Tra questi materiali figurano i contratti che specificano non solo i salari, ma anche (almeno nel caso dei minori) il nome del genitore che ha firmato o co-firmato assieme al figlio o alla figlia (minorenne). Possono essere presenti anche la data di nascita dei ballerini (quando è stato aggiunto un certificato di nascita), nonché svariati tipi di accordi tra l’amministrazione dell’Opéra e il performer — ed eventualmente il suo tutore, se minorenne — riguardanti ad esempio classi di danza gratuite e permessi di assenza (nel caso di ballerini adulti o di grado elevato). Talora è possibile reperire copie di lettere al Direttore del teatro, annunci di matrimonio e di morte e annotazioni scritte da medici. I salari più alti spettavano naturalmente alle étoiles. Ad esempio, per la protégée di Maria Taglioni, Emma Livry, risulta un contratto triennale (1 agosto 1859 – 31 luglio 1862) per 18.000 franchi il primo anno, 24.000 franchi il secondo e 30.000 il terzo. Di contro, il contratto di Blanche Alexandre, allorquando questa ballerina iniziò a lavorare a pieno tempo, prevedeva il salario annuale standard spettante ai membri appartenenti alla terza quadrille (il livello più basso del corps de ballet) agli inizi degli anni ’60 e cioè 400 franchi. Questa cifra implica che mensilmente alla danzatrice spettavano circa 33 franchi, ovvero poco più di un franco al giorno. Un salario tanto modesto era quello che andava alla maggioranza delle ballerine, almeno nei primi anni della loro carriera, e questo può in gran parte spiegare, se non giustificare, perché madri vedove, nubili o svantaggiate per altri motivi, ricorressero allo sfruttamento delle figlie affinché potessero guadagnare qualcosa in più.[14] La terza importante fonte primaria del mio studio enciclopedico consiste nei libretti ottocenteschi (detti in francese livrets o scénarios), con i loro elenchi di ballerini meravigliosamente precisi. La Collezione Sowell conserva la maggior parte dei livrets prodotti per i balletti e i divertissements prodotti durante il Secondo Impero. I mancanti possono essere molto spesso reperiti online. I libretti stampati presentano elenchi precisi, ma in realtà talvolta si provvedeva a sostituzioni di un ballerino o di una ballerina per una certa recita. Potevano essersi verificati una malattia, un’indisposizione, un danno fisico, oppure il coreografo (o in rarissimi casi la coreografa) poteva decidere di impiegare per un pas ballerini diversi da quelli che lo avevano danzato al debutto. Per questo motivo, ho ritenuto opportuno procedere a verifiche nella stampa contemporanea, articoli e recensioni. In questo modo la possibilità di assegnare non correttamente dei ruoli (in genere nel caso dei solisti minori delle quadrilles) è stata, se non eliminata del tutto, almeno ridotta in modo consistente. Ovviamente preziosa è stata la consultazione di Gallica, il sito web della Bibliothèque Nationale de France, reperibile a https://gallica.bnf.fr/. Vi si possono trovare recensioni lunghe, molto particolareggiate (e altamente personali) di Théophile Gautier, gran parte delle quali il compianto studioso inglese Ivor Guest anni fa raccolse, annotò e pubblicò. Su Gallica è anche possibile consultare interessanti articoli scritti da critici di danza e giornalisti minori, da uomini di mondo, coreografi, per non menzionare una miriade di pettegolezzi con aneddoti e descrizioni di ballerine spiate al di fuori dalla scena. Molto di tutto ciò ho incluso nel mio libro, o vi ho fatto riferimento. Disdéri’s Dancers sarà disponibile all’acquisto da Kinetès Edizioni nei prossimi mesi. Sebbene io non insegni più Dante e non lavori più come provost (vicerettore) in varie università, non ho però abbandonato il “sommo poeta”, anche se il focus dei miei studi si è spostato dall’approfondimento di allusioni intertestuali dantesche allo studio dell’iconografia della danza.[15] Ancora pubblico in verità qualche saggio sulla Divina Commedia e regolarmente recensisco libri sulle opere dantesche, ma lo faccio ormai come impegno minore rispetto alla ricerca che riguarda in primo luogo le immagini relative alla danza e ai danzatori prenovecenteschi che sono conservate nella nostra collezione. L’elemento che il mio costante amore per Dante e la nostra collezione di iconografia di danza — sempre in fase di crescita — hanno in comune è il fatto che entrambi nascono dal desiderio di cercare di trovare un significato storico e culturale, che sia nell’immaginario verbale di Dante, quello che lui descrisse come “visibile parlare”, o nelle immagini di danzatori e danzatrici, che hanno cercato di fermare nel tempo i loro movimenti effimeri. --- 1. Ringrazio di cuore sia Rossella Del Prete per l’invito a contribuire con queste riflessioni al “Giornale del Kinetès” sia Patrizia Veroli per il prezioso aiuto con la traduzione dei miei pensieri in un italiano comprensibile per i non specialisti di danza. 2. A. Smith, The Natural History of the Ballet-Girl, London, D. Bogue, 1847, p. 6. 3. Zed [Comte Albert de Maugny], Le Demi-monde sous le Second Empire: Souvenirs d’un sybarite, Ernest Kolb, Paris 1892. 4. R. Christiansen, Tales of the New Babylon: Paris 1869-1875Sinclair-Stevenson, London 1994, p. 64. Per uno studio approfondito del Foyer, della cosiddetta loge infernale, degli abonnés, e per una lista dei signori a cui era permesso l’accesso al Foyer nel 1859, cfr. M. Kahane, Le Foyer de la Danse, Musée d’Orsay / Bibliothèque Nationale, Paris 1988. 5. Chi legge deve tenere a mente non solo la denotazione, ma anche la connotazione di molti termini francesi. Quando nell’Ottocento si scriveva demi-monde sous le Second Empire, il termine demi-monde (alla lettera, “mondo di mezzo”) aveva un significato diverso da quello in uso al giorno d’oggi, almeno nel mondo anglofono. Allora esso faceva riferimento per lo più all’ambiente semi-nascosto delle cortigiane e delle prostitute. Nel XXI secolo parliamo di demi-monde per identificare coloro che vivono e operano ai limiti della società rispettabile, come i commercianti di armi. 6. L. Coons, Artiste or coquette? ‘Les petits rats’ of the Paris Opera Ballet, “French Cultural Studies”, vol. 25, n. 2, 2014, pp. 140-64. Per un’opinione contrastante (e forse più diffusa, anche se superficiale e poco supportata da scientificità), vedi S. Griffin, The Book of the Courtesans: A Catalogue of Their Virtues, Broadway Books, New York 2001, p. 166: “Così come accadeva per le attrici, e ciò sebbene la loro remunerazione fosse più alta di quella delle grisettes [le donne che lavoravano nel settore della manifattura degli abiti], il salario delle ballerine era basso e permetteva loro una vita assai misera. A meno che la ballerina non fosse una étoile, tolte le spese per sopravvivere, niente le restava per sostenere la propria madre o da accantonare per i tempi che sarebbero seguiti alla pensione, momento che per una ballerina arrivava presto. Così, come spesso accadeva per le attrici, le ballerine erano spesso cortigiane”. 7. Una seria rivalutazione del ruolo dei ballerini ottocenteschi è cominciata con un importante saggio uscito nello scorso decennio. Cfr. M. Smith, Levinson’s Sylphide and the Danseur’s Bad Reputation, in “La Sylphide”: Paris 1832 e M. Smith, a cura di, Beyond, Dance Books, London 2012, pp. 258-90. Smith mette in evidenza parecchi critici, tra cui André Levinson (1887-1933), “che hanno diffuso la falsa convinzione secondo cui nel XIX secolo gli uomini erano usciti di scena” (Ibidem, p. 259). È da notare comunque che attorno alla metà dell’800 si afferma in Francia un gusto secondo cui non è molto gradito vedere uomini che nel teatro di danza incarnano personaggi importanti e dunque ruoli protagonistici. Il balletto, almeno in Francia, restò il regno soprattutto della ballerina fino ai primi del 900. 8. Nella prefazione a Un Abonné de l’Opéra [George Duval], R. Sangalli, Terpsichore: Petit guide a l’usage des amateurs de ballets, Tresse, Paris 1875, p. 13. 9. T. Gautier, Le Rat, in Id., La Peau de tigre, Michel Lévy frères, Paris 1866, pp. 327-28. 10. Ibidem, p. 328. 11. S. Aubenas, Le Petit monde de Disdéri, «Études photographiques», n. 3, 1997, pp. 26–41. 12. Vedi M. Pagneux, a cura di, Photographies du Second Empire: Collection Maurice Levert, fond Disdéri (91 albums), album par Olympe Aguado, Pescheteau-Badin, Godeau et Leroy, Paris 28 gennaio 1995. 13. Cfr. E. A. McCauley, A. A. E. Disdéri and the Carte de Visite Portrait Photograph, Yale University Press, New Haven 1985, per le appendici che includono Il registro dei clienti di Disdéri, pp. 225-26. 14. Cfr. S. Leigh Foster, Choreography & Narrative: Ballet’s Staging of Story and Desire, 1996), p. 223, che spiega il sistema dei protettori per i membri del corpo di ballo che non potevano permettersi le proprie spese. Questo pregevole lavoro di Foster è stato tradotto in italiano dall’editore Audino di Roma nel 2003. 15. A volte la mia passione per Dante e quella per la danza s’intrecciano e mi accade di pubblicare un articolo che tratta dell’uno che dell’altra. Vedi, per es. M. U. Sowell, Dentro a la danza de le quattro belle (Purg. 31.104): Dance in Dante’s ‘Commedia’, «Bibliotheca Dantesca: Annual Journal of Research Studies», vol. 1, saggio n. 9, 2018, pp. 157-76. Online: https://repository.upenn.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1011&context=bibdant. Un esempio del mio lavoro sull’intertestualità in Dante si trova in . M. U. Sowell, a cura di, Dante and Ovid: Essays in Intertextuality, Binghamton, New York 1991. Comments are closed.
|
Archivio
Gennaio 2023
Categorie
Tutti
Scarica qui i numeri completi della Rivista
|
Tutti i diritti sono riservati © Kinetès-Arte. Cultura. Ricerca. Impresa. 2016 |
|