di Renè Bozzella e Giovanna Panarese 1. Introduzione Palazzo Bosco Lucarelli già dell'Aquila, sede del dipartimento di Ingegneria dell'Università del Sannio ha un nuovo volto: tornato all'antico splendore, si può ammirare nella sua nuova veste. I lavori di restauro e risanamento conservativo che hanno interessato l'immobile tra il 2020 e il 2021 sono stati l'occasione per riscoprire la storia di questo antico palazzo e per conoscere le moderne tecniche di restauro applicate ai beni culturali. L’edificio si presenta con tutte le tipiche caratteristiche di Palazzo Nobiliare, caratterizzato da un impianto distributivo di grande dimensione e da una veste architettonica ben riconoscibile. A pianta quadrata, libero su quattro lati, con cortile interno, caratterizzato da grandi facciate su cui si evidenzia uno studio dei rapporti volumetrici e decorativi, a eccezione di quella prospiciente Via Antonio Cocchi. L’edificio è a tre piani leggibili anche sui prospetti con paramento murario intonacato, bugnato al piano terra e liscio ai piani superiori, impreziosito da decorazioni in rilievo e copertura con tetto a falde. In particolare le partiture sono scandite da una successione ritmica di pieni e vuoti: i pieni delle murature esterne segnate da cornici marcapiano, che si concludono con un cornicione modanato di notevole aggetto e una fascia che nasconde la copertura, e i vuoti delle bucature riquadrate e sormontate da fregi. Talune bucature sono balconate con parapetti del tipo a balaustra. Al piano terra si accede tramite un grande portale d’ingresso inquadrato da colonne sormontate da una balconata. 2. Evoluzione storica delle vicende costruttive Il Palazzo Bosco Lucarelli già dell’Aquila fu costruito, con molta probabilità, nel XIV secolo dalla famiglia Dell’Aquila, una delle più antiche del patriziato beneventano. L’area dove esso sorge infatti ha rivestito notevole importanza sin dall’epoca romana; al centro di essa si incrociavano gli assi viari più importanti della città: quello longitudinale (l’antica Via Magistrale, l’odierno Corso Garibaldi) che collegava Porta Somma con Porta San Lorenzo e quello trasversale che collegava Port’Aurea (l’Arco di Traiano) con Porta Rufina. Nel suo ambito erano collocati il Palazzo della Comunità, il Seminario, i conventi di Santa Caterina e dei Carmelitani con le rispettive chiese. Sul finire del XVI secolo si insediarono anche i Gesuiti, i quali oltre a realizzare il Convento (la collegiata dei Gesuiti, ovvero il Convitto Nazionale) edificarono la loro chiesa quasi in continuità col palazzo Dell’Aquila il cui muro perimetrale sinistro rimase separato dalla parete laterale dell’edificio sacro da un “ambitus” interrotto soltanto da un sovrappasso e da un arco distanziatore all’imbocco sulla Via Magistrale. La dimora originaria doveva essere costituita da una tipologia edilizia a corte aperta sviluppata su due livelli (piano terra e piano nobile) simmetrici rispetto all’androne centrale accessibile dal Largo del Gesù (attuale piazza Roma). Tale slargo prima del XVI secolo non era né esteso, né livellato, né riquadrato come lo vediamo oggi poiché in parte esso era occupato da alcuni caseggiati e per il resto era pertinenza della casa Dell’Aquila. Con molta probabilità il palazzo Dell’Aquila aveva una scala esterna visto che il 3 luglio 1597 fu data a Gerolamo Dell’Aquila, dal Consiglio della Città, licenza di costruire una scala interna. È solo dopo il terremoto del 1702, con Andrea Dell’Aquila e suo fratello Giovanni, che il palazzo subisce una radicale trasformazione verso la sua attuale conformazione a corte chiusa. La facciata viene ribaltata sulla Via Magistrale, divenuta dal XVII secolo in poi richiamo per la residenza dei ceti abbienti, e con essa la galleria di cui purtroppo non restano che tracce sommarie dopo gli interventi novecenteschi. In quello stesso periodo si realizza uno scalone simile a quello del più noto Palazzo cittadino, Palazzo Paolo V. Dopo il 1860, la città entra a far parte del Regno d’Italia, si svincola dal controllo papalino ed è pronta ad aprirsi al nuovo Stato. Vengono abbattute quasi tutte le porte cittadine, viene costruito l’edificio della Stazione Ferroviaria e il viale che mette in comunicazione la stazione stessa con la città (Viale Principe di Napoli dal nome del principe e futuro re Vittorio Emanuele III che era stato in visita alla città). L’antica Via Magistrale, Corso Garibaldi, diviene una strada di rappresentanza che ospita la vita sociale ed economica della borghesia beneventana. È in questo contesto che, a seguito di un decadimento politico ed economico della famiglia Dell’Aquila, l’omonimo palazzo passò alla famiglia Bosco Lucarelli che lo sopraelevò secondo una tendenza diffusasi in città dopo l’unità d’ Italia. Nel 1926, sia il Palazzo che la contigua chiesa del Gesù furono ceduti all’Amministrazione Comunale che deliberò l’abbattimento della chiesa la quale versava già in condizioni di abbandono a seguito di un incendio che nel 1918 l’aveva danneggiata in modo significativo. La demolizione della chiesa faceva parte di un progetto di ristrutturazione urbanistica dell’architetto Italo Mancini che prevedeva il livellamento del largo antistante il convento dei Gesuiti, la realizzazione lungo il perimetro della nuova piazza di un portico, l’apertura di una direttrice verso l’Arco di Traiano con la demolizione dei palazzi esistenti lungo il tratto stradale inclusa la chiesa e la collocazione di un monumento ai caduti come polo da contrapporre all’arco romano. Il progetto fu attuato solo in parte. Negli anni ’30 l’istruzione diventa laica e sulle spoglie della Collegiata dei Gesuiti nasce il Convitto Nazionale Pietro Giannone. È in questi stessi anni che il palazzo Dell’Aquila, ora Bosco Lucarelli, vede l’ampliamento con la realizzazione dell’ala destra (incorporando parte del suolo sui cui si erigeva la Chiesa del Gesù) e l’estensione delle decorazioni simili a quelle della facciata principale sulle altre due facciate rispettivamente quella su Via Orbilio Pupillo e Piazza Roma. Alla fine degli anni ’40, anche Palazzo Bosco Lucarelli riporta le ferite profonde inferte dai bombardamenti subiti dalla città di Benevento nel 1943. Ma nel decennio successivo, Piazza Roma e con essa tutti gli edifici prospicienti ritrovano l’antico splendore A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 viene autorizzato un nuovo progetto di restauro che vede in particolare la sostituzione del tetto ligneo con uno in ferro. Già nel 1913 il Ministero dell’Istruzione Pubblica notifica l’importante interesse storico e artistico di Palazzo Bosco Lucarelli ed è nel 1991 che avviene l’apposizione del vincolo di cui alla Legge 01/06/1939 n.1089 sulla tutela delle cose di Interesse Storico Artistico - D.M. 20/12/1991 e nel 1992 la trascrizione presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari. Oggi il bene risulta inserito nell’elenco dei beni vincolati della città di Benevento, ovvero sottoposto a “vincolo di tutela” ai sensi dell’art. 10, comma 3 del D.L.gs 42/2004. Tra il 1997 ed il 1998 l’immobile è concesso in comodato d’uso gratuito dal Comune di Benevento all’Università con accordo di programma per l’istituzione dell’Università degli Studi del Sannio con sede in Benevento. Il 15/04/2004 il MIBAC ne autorizza l’alienazione e il 19/09/2005 l’Università lo acquisisce dal Comune con atto pubblico. Gli ultimi lavori sull’immobile risalgono al 2009, quando l’ente proprietario chiede l’autorizzazione per lavori in copertura e nel 2018 viene effettuato un intervento d’urgenza a seguito delle repentine cadute di calcinacci ed elementi ornamentali, con l’apposizione di un’opera provvisionale a tutela della pubblica e privata incolumità. Il restauro, di cui oggi possiamo ammirare i risultati, prende il via un anno più tardi, quando l’Università del Sannio affida l’incarico per la redazione del progetto di Restauro e risanamento Conservativo all’Arch. René Bozzella coadiuvato dall’Arch. Giovanna Panarese, dando avvio a un lavoro importante, complesso, del quale cercheremo di raccontare le fasi cruciali sperando di suscitare nel lettore curiosità e orgoglio per un pezzo di città ritrovato. 3. Il progetto di restauro - la conoscenza Obiettivo dell’intervento di restauro è stato quello di assicurare la fruizione e la conservazione della struttura nella salvaguardia del suo valore storico e architettonico, nonché economico, così come indicato dalla committenza; ma anche di contribuire alla sua valorizzazione, adoperandosi affinché si costituissero le condizioni di maggiore compatibilità tra il diritto alla fruizione e gli interventi per la tutela, con particolare attenzione alla trasmissione nel tempo delle caratteristiche preesistenti, quelle formali, dei materiali originari, dell’apparato decorativo. Occorreva dunque predisporre un piano di conservazione che contenesse una serie di decisioni motivate che dovevano essere codificate in un Progetto di Restauro redatto in base ad appropriati criteri non solo tecnici e strutturali. Tutto il processo si avviava con una fase preliminare di conoscenza lunga e complessa in cui i progettisti coinvolti provavano a stabilire col bene un’intesa, un legame, da cui far scaturire le scelte operative: osservazione, lavoro silenzioso e paziente, studio analitico e minuziosamente ordinato. Occorreva operare come all’interno di un laboratorio, in cui la storia della fabbrica diviene motivo di ascolto diretto con l’architetto, conoscenza, sapere esperto da tramutare alle maestranze che lo avrebbero attuato. Se la restituzione storica è per certi versi il ripercorrere a ritroso il processo d’invenzione e concepimento dell’opera, il rilievo diretto ne costituisce l’apparato grafico basilare per la conoscenza e si configura come una sorta di nuovo ‘progetto’, che risale dalla materia all’idea. Ciò ha comportato, oltreché una vastissima campagna fotografica, un accorto uso del disegno, condotto con vivo senso critico, utilizzando, secondo necessità, le diverse tecniche, tradizionali o moderne, senza trascurare l’analisi a mano libera che si è rivelata ancora la più adatta a rapidi appunti interpretativi e a note di studio. Ci si può servire del disegno per ricordare, per capire, per interpretare ed esprimere criticamente i caratteri e i valori di un’architettura. È così che si è potuto comprenderne i caratteri essenziali, spaziali, volumetrici, geometrici, strutturali per l’approfondimento e la completezza degli aspetti che si sarebbero dovuti affrontare e indagare. È da questa predisposizione ad affrontare la questione della conoscenza come ascolto attento e umile dell’architettura, come esposizione alla complessità delle cose, come occasione per cogliere l’inafferrabile, il timido, che il primo cauto atteggiamento si tramuta in amorevole cura. Come già anticipato, Palazzo Bosco Lucarelli già Dell’Aquila, così come giunge a noi nel suo aspetto esteriore, è il frutto di un lavoro di restauro e ampliamento eseguito negli anni Trenta del Novecento. Orbene, le facciate del palazzo presentano tutto il campionamento del periodo, ovvero intonaci bugnati al piano terra e intonaci frattazzati e stilati a fresco ai piani superiori, elaborate decorazioni in cemento decorativo o pietra artificiale per il disegno e il decoro dei prospetti dei balconi e delle finestre nonché del portale d’ingresso facendo rientrare l’immobile a pieno titolo tra i manufatti in pietra artificiale tipici degli anni Venti e Trenta di inizio ‘900 in cui la decorazione in cemento assume un’importanza prioritaria nella composizione architettonica: questo rappresenta un presupposto fondamentale per affrontare in modo adeguato le scelte per l’intervento conservativo.[1] Per ottenere malte idonee a realizzare pietra artificiale si utilizzavano diversi tipi di aggregato: da quelli più tradizionali di sabbia e ghiaietto a quelli più ricercati, che vedevano l’utilizzo di polvere o frammenti di marmi e pietre naturali. Senza entrare nello specifico delle ricette e delle composizioni (che pure da talune indagini stratigrafiche si è cercato di definire), possiamo affermare che nel caso in oggetto sono presenti miscele a imitazione delle seguenti categorie di marmi: - granito rosa per le colonne disposte lateralmente al portale d’ingresso sul Corso Garibaldi; - granito bianco con puntinatura grigia per i balaustrini dei balconi; - marmo grigio (forse bardiglio imperiale) per i timpani, gli apparati decorativi dei portali e delle balconate, gli stemmi e le cornici di finestre e balconi; - marmo beige breccia damascata (in questo caso marmo di Vitulano) per i modiglioni del cornicione; - marmo grigio chiaro per le fasce marcapiano. Tali differenze cromatiche non risultavano ben visibili già prima dei lavori, a causa di uno strato di colore apportato da precedenti interventi di restauro, che hanno compromesso buona parte del linguaggio espressivo proprio dei lito-cementi. In questo fabbricato sono inoltre presenti tutti gli elementi tipici che ne connotano questo genere di lavorazione: - l’intonaco bugnato, realizzato mediante l’utilizzo di modine in legno per la profilatura dell’elemento tridimensionale;[2] - le modanature orizzontali di fasce marcapiano e cornici, realizzate con un semplice strato di intonaco o rinzaffo, accuratamente graffiato quando ancora fresco, per garantire una migliore aderenza degli strati di finitura. Successivamente si faceva scorrere il modine finché la modanatura risultasse sagomata; - gli elementi di decoro di dimensioni ridotte come stemmi e simboli sulle balconate principali, e blocchi scultorei, come timpani di balconi e finestre, realizzati mediante il sistema a calco aperto (per elementi decorativi aventi un solo fronte a vista) che prevedeva la realizzazione in calchi di gesso di un primo strato a granulometria fine e successivamente di un secondo strato più grossolano con o senza armatura di rinforzo, a seconda della sporgenza; - i balaustrini finiti superficialmente in graniglia e realizzati con due stampi giuntati con armatura all’interno. Lo studio della fabbrica, nella forma, nella struttura, nel contesto territoriale e nelle sue componenti sociali, ambientali e geo-morfologiche, costituisce un dato di partenza fondamentale per qualsiasi intervento conservativo che il progettista deve affrontare, avvalendosi della collaborazione di altri tecnici specialistici, avendo come metodica peculiare l’approccio multidisciplinare; il progetto così inteso richiede il coordinamento di fasi, anche se ben distinte tra loro, fortemente integrate. Ai fini della valutazione dello “stato di salute” dell’edificio sono stati convogliati in un unico sistema integrato e accessibile dati di diversa natura storico-artistici, metrico-geometrici, fisico-chimici, tecnologici, strutturali, ambientali, ottenuti dall'applicazione di metodologie e strumenti variegati ma tutti imperniati su un atteggiamento di grande attenzione alla realtà del monumento e quindi alla concretezza dell'architettura. Solo operando una lettura totale del bene e considerandolo non come soggetto passivo ma piuttosto quale soggetto attivo di un processo finalizzato al mantenimento della materia, dei segni e dei valori di cui è portatore, è stato possibile progettare ed eseguire interventi di restauro sensibili e consapevoli. In tale processo le nuove opportunità offerte dall’avanzamento scientifico e tecnologico, adoperate però secondo solidi principi di approccio integrato, si sono dimostrate di grande utilità rivelando in maniera ancora più eloquente le tracce del passato e facilitando la lettura, l'accessibilità e la condivisione di un'eredità che è manifestazione della realtà costituita dai fatti coerenti e diversificati distribuiti nel tempo, nello spazio e nella materia. In tale ottica sono stati effettuati all’uopo “tasselli” stratigrafici, al fine di individuare natura e consistenza della “materia” ed eventuali coloriture dei substrati. Nello specifico è stato redatto uno studio Mineralogico, Petrografico e Stratigrafico degli intonaci delle facciate esterne del palinsesto architettonico. Lo scopo è stato quello di mappare puntualmente intonaco e apparati decorativi, in taluni casi celati sotto l’attuale tinteggiatura, e il loro relativo stato di conservazione, nonché la tipologia di materiale, la valutazione di adesione al supporto. Per tutti gli strati individuati in analisi al fine di delineare un quadro della conoscenza puntuale e attendibile fatto di dati scientifici in relazione alle reali condizioni di degrado, si è manifestata la necessità di redigere un’ulteriore indagine diagnostica non distruttiva tra quelle frequentemente utilizzate nel campo del restauro: la termografia. Una campagna di rilevamento complessa che si è tradotta in elaborati grafici che hanno descritto il manufatto sotto il profilo morfologico, dimensionale, materico e conservativo. Le facciate di Palazzo Bosco Lucarelli versavano in condizioni precarie, interessate da importanti fenomeni di degrado che ne compromettevano aspetto e funzionalità (Img. I). Gli intonaci in facciata presentavano evidenti e molteplici fessurazioni, che favorivano la penetrazione dell’acqua piovana, veicolo di ingresso delle sostanze chimiche aggressive presenti nell’atmosfera, che erano all’origine del degrado della “struttura materica” provocando distacchi delle pitture e dei rivestimenti impiegati come finitura; gli elementi decorativi che costituiscono le cornici marcapiano, frontoni, trabeazioni e i modiglioni a doppia voluta che sostengono i balconi e la cornice di coronamento mostravano evidenti segni di deterioramento e distacco. Anche i balconi nel loro insieme (solette e balaustre) si presentavano fortemente deteriorati, con i singoli elementi fessurati e in fase di distacco con i ferri esposti e ossidati per le balaustre e con i fondelli delle tavelle al limite della rottura per le solette. Gli intonaci del cortile interno presentavano criticità legate a un rilevante fenomeno di umidità di risalita capillare amplificato dall’impiego di materiali poco traspiranti utilizzati nei precedenti interventi di ripristino locale, oltre a un’evidente azione antropica; inoltre, si rilevava un importante fenomeno infiltrativo proveniente dai canali di gronda e dalle pluviali che compromettevano fortemente l’integrità dell’intonaco e delle cornici di coronamento. Altrettanto complesse apparivano le condizioni del manto di copertura: un rilievo fotografico condotto con il drone, al fine di avere contezza di tutta la superficie di copertura, ci consentiva di rilevare un evidente fenomeno di “scivolamento” delle tegole, destando forte preoccupazione per le condizioni di sicurezza dei fruitori, non tanto per i prospetti esterni su corso Garibaldi, Via Pupillo e Piazza Roma, protetti da parapetto di coronamento, quanto su Via Cocchi e verso il cortile interno. Per finire, gli infissi in legno presentavano fenomeni di esfoliazione delle pitture e di marcescenza degli elementi. 4. Il progetto Gli interventi finalizzati al restauro delle facciate di Palazzo Bosco Lucarelli già Dell’Aquila non hanno comportato alcun impatto sulle strutture del palinsesto architettonico e, in linea con i dettami del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D. Lgs. 42/2004), hanno mirato a conservare la materia e a tramandare i valori culturali e identitari del bene. Considerato che ogni aggiunta introduce nuovi e tangibili elementi estranei alla consistenza originaria del manufatto, gli interventi conservativi, cioè tutte le operazioni di pulitura, consolidamento, ripristino, integrazione, sostituzione e protezione hanno garantito in qualsiasi momento il rispetto dei 5 principi fondamentali del restauro: - del minimo intervento, limitandosi all’essenzialità, al fine di non comprometterne la valenza documentaria; - della reversibilità dell’intervento, ossia la possibilità di rimuovere, in futuro, le eventuali aggiunte e integrazioni introdotte con l’intervento di restauro conservativo; - della compatibilità chimico-fisico-meccanica dei materiali attuali con quelli antichi; - della distinguibilità di eventuali integrazioni, differenziandone i materiali rispetto agli originali; - dell’interdisciplinerietà fra le diverse discipline/professioni che collaborano nella ricerca e nello scambio di conoscenze, allo scopo di ottenere un lavoro più completo e rispettoso. Per tale ragione, i fenomeni di degrado e alterazione e le patologie riscontrate e graficizzate nelle tavole di progetto di conservazione dei materiali sono stati diagnosticati e classificati sulla scorta delle indicazioni contenute nella norma UNI 11182:2006 “Beni culturali - Materiali lapidei naturali ed artificiali”, che sostituisce la NORMAL 1/88, per tutte le patologie macroscopicamente visibili (Img. II). Le indagini strumentali e le ispezioni effettuate in fase di conoscenza e rilievo hanno fatto emergere la presenza di processi di degrado assimilabili per lo più a quelli delle malte e degli intonaci, talvolta a quelli del calcestruzzo armato. Per una migliore predisposizione degli interventi successivi sono stati individuati i fenomeni di alterazione e degrado, sinteticamente suddivisi in funzione degli effetti che provocano sulle superfici, come di seguito riportato. Patologie che modificano l’aspetto superficiale: influenzano prevalentemente o esclusivamente la percezione superficiale del manufatto, soprattutto per quanto riguarda il colore e la sensazione tattile. Alterazioni chimico-fisiche-biologiche, colatura, colonizzazione biologica, efflorescenza, fronte di risalita, macchia, rigonfiamento, stuccature con prodotto non idoneo, corrosione. Patologie che asportano materiale e che pertanto comportano perdita di materiale, che inizialmente interessa i dettagli di finitura, il cui protrarsi conduce alla perdita di intere parti: distacco, lacuna, mancanza, esfoliazione, cavillatura, fratturazione. Patologie che accumulano materiale di varia natura: si tratta di fenomeni che comportano la deposizione di materiale di origine secondaria, di varia natura, che possono apportare sostanziali modificazioni di colore, aspetto e di struttura. Deposito di varia natura. Degrado antropico: presenza di materiale estraneo al bene culturale, la cui apposizione ha determinato il degrado (talvolta irreversibile) delle superfici. Fili elettrici, condizionatori, graffiti Vandalici. Il progetto di restauro che ne è scaturito come consequenzialità di scelte conservative si è rivelato non solo come lo specifico strumento tecnico con il quale si attuava la conservazione del patrimonio costruito attraverso chiare indicazioni operative ed elaborati grafici, ma anche come un fatto profondamente umano perché attraverso quei disegni si stabiliva un contatto prima tra il progettista e il bene e poi tra il progettista e gli esecutori. 5. Le fasi operative di cantiere La fase operativa costituisce senza dubbio il momento cruciale di qualsiasi intervento di restauro; a valle di un progetto esecutivo scrupoloso, supportato da indagini storiche, materiche, termografiche, con campionature sul bene, la conoscenza nella sua completezza di informazioni trova riscontro solo in questa fase. Questo il momento in cui le intenzioni del progetto si misurano realmente con la consistenza dello stato di fatto; a tal proposito è condivisibile l’affermazione che “il progetto di restauro si redige in corso d’opera”. Il “cantiere Bosco Lucarelli” si presentava sin da subito con diverse e importanti difficoltà operative, a partire da quelle logistiche, in quanto ubicato nel centro storico della città di Benevento con ingresso principale sul centralissimo Corso Garibaldi e accesso secondario dall’adiacente Piazza Roma, per arrivare alle funzioni ospitate (dal dipartimento di ingegneria civile e laboratori per la didattica dell’università alle attività commerciali collocate al piano terra) a cui andava garantita la continuità operativa, senza trascurare le caratteristiche intrinseche del bene dotato di apparati decorativi di particolare pregio. La prima operazione, dopo l’installazione del ponteggio, è stata quella di effettuare una ricognizione puntuale dello stato di conservazione e degrado delle superfici, mediante una picchettatura manuale di tutte le superfici dei prospetti, da quella intonaca agli apparati decorativi, in modo da avere reale contezza delle condizioni, verificandone la coerenza con le scelte progettuali e, laddove necessario, disponendo interventi volti a prevenire il danneggiamento o il deterioramento del bene culturale senza modificarne qualitativamente l’opera. A seguito della ricognizione sono state individuate puntualmente tutte le criticità presenti sui paramenti murari, superfici intonacate, apparati decorativi ivi compresi balconi e balaustre, bugne e cornici marcapiano, a cui ha fatto seguito la spicconatura dell’intonaco e la rimozione di tutti i ripristini effettuati con materiale non idoneo. Proprio quest’ultimo, trattandosi di malta cementizia ad alto potere consolidante e penetrante, ha destato maggiori criticità in fase di rimozione, in quanto aveva stabilito condizioni di adesione con gli elementi al contorno e con il supporto molto forti e la rimozione ha richiesto una operazione capillare e selettiva onde evitare ulteriore asportazione di materia. Durante le operazioni di spicconatura degli intonaci, sono emerse le stratificazioni costruttive della fabbrica: la parte di antica formazione in muratura di conci di tufo, in parte anche a carattere irregolare soprattutto su Via Cocchi dove troviamo anche degli intervalli di pietrame con interventi di rincocciatura, e l’ampliamento effettuato a seguito della demolizione della chiesa del Gesù, realizzato in mattoni pieni in laterizio (i due corpi nel punto di raccordo presentano una muratura “listata” che fa da cerniera tra i paramenti in tufo e quelli in mattoncino). Tale condizione si denota anche per “l’architrave” differenziato delle bucature: per alcune abbiamo elementi lignei e per altre delle travi IPE. Alla spicconatura del sottobalcone e del frontale, per la rimozione delle parti decoese, come da ipotesi e saggi effettuati in fase progettuale, si è constatato che gli aggetti hanno struttura portante in ferro e laterizio, ma si presentano differenti per tipologia costruttiva ed elementi costruttivi: in alcuni punti vi sono tavelle forate piane di manifattura più “moderna”, in altri elementi in laterizio pieni o semipieni, posti in piano o a modi voltina sicuramente di epoca costruttiva più antica. Sempre durante le operazioni di rimozione degli intonaci, si manifesta sin da subito il distacco diffuso di cornici, fasce marcapiano, cantonali ed altri apparati decorativi, pertanto si è dovuto intervenire con la massima solerzia e celerità al fine di evitare danni irreversibili agli stessi, condizione riscontrabile solo in fase di rimozione dell’intonaco, in quanto dato l’elevato spessore neanche l’indagine termografica ne aveva restituito chiara lettura delle condizioni di reale adesione al supporto. Nel cantonale (angolo Corso Garibaldi - Via Cocchi) in corrispondenza del primo livello è stata rinvenuta una stratificazione di cornici, ovvero l’attuale cornice su cui imposta il motivo bugnato è stata realizzata in sovrapposizione a quella esistente (Img. III); dalla documentazione storica e tecnica degli interventi precedenti non si aveva traccia di tale condizione ed oggi, seppur ricoperta per motivi di coerenza di facciata, ne abbiamo traccia documentata della reale ubicazione. La minuziosità delle rifiniture, la cura per il dettaglio e la scrupolosità esecutiva, hanno fatto sì che a tutte le lavorazioni previste sia stata prestata la dovuta attenzione come per gli interventi di rimozione e catalogazione a piè d’opera di modiglione ed altri elementi decorativi da ricollocare (Img. IV e V). Anche la “banale” operazione di pulizia di un blocco lapideo da reimpiego[3] volutamente lasciato a vista e posto sul lato destro del cortile entrando dall'ingresso principale di Corso Garibaldi. Sin dalle primissime fasi di conoscenza e rilievo del manufatto il blocco aveva attirato l’attenzione ma non si conosceva nulla in merito né era stata trovata notizia alcuna nella fase preliminare di ricerca storica. Il degrado e il guasto di alcuni elementi tecnici come pluviali e scossaline si era inevitabilmente riversato anche su questa piccolissima porzione del fabbricato con la presenza riscontrabile macroscopicamente di una colonizzazione biologica costituita da muschi, funghi, licheni e altri microrganismi patogeni che rischiavano di danneggiare irrimediabilmente il reperto. Tuttavia si avvertiva la necessità di rivolgere attenzione e rispetto nei confronti di questo elemento che aveva attraversato i secoli. Oggi, che possiamo ammirare l'elemento lapideo ripulito e liberato dagli agenti infestanti, abbiamo scoperto, grazie al lavoro e all'impegno di altre figure dedite allo studio e alle ricerche storiche sulla città[4], che si tratta di un’epigrafe funeraria di dimensioni 79 x 48 centimetri, in materiale di pietra scolpita a scalpello, datato tra il 150 e 250 dopo Cristo, dedicata dai genitori e dal coniuge a una giovane quindicenne, straordinariamente bella e assennata, eccelsa nell'aspetto e nell'animo. Si tratta di un'iscrizione “drammatica e poetica” che ha attraversato i secoli e con essa giunge a noi il grido di dolore per la morte; non è un simbolo, ma è il dolore vero di persone vere, anche se vissute 18 secoli fa. Si chiude il racconto di questo restauro con qualche notizia relativa alle scelte cromatiche. All’apertura del cantiere gli intonaci e gli elementi decorativi si presentavano con uno spesso strato di colore apportato da precedenti interventi di restauro, che hanno compromesso buona parte del linguaggio espressivo proprio dei lito-cementi. È stato difficile discernere, anche in linea teorica, il grado di intensità o profondità a cui ci si poteva spingere nelle operazioni di risanamento delle superfici o di semplice pulitura. Quando l’intervento conservativo arriva a richiedere scelte sulla “pelle” del manufatto e quindi sul colore, le scelte divengono ancora più ardue, non tanto per problemi tecnici di applicazione quanto per quelli critico-storico-estetici. La policromia originale è stata periodicamente rinnovata nell’ordinaria opera di manutenzione che raramente ha saputo ripetere il tono giusto; gli strati di colore applicati successivamente sull'originale avevano la funzione di nascondere o di uniformare tutte quelle irregolarità in macchie che inevitabilmente si formano sulle superfici esterne in quanto maggiormente esposte e quindi le nuove tinteggiature erano applicate a strati pesanti e coprenti dimenticando quelle parti in aggetto, basamenti, cornici, paraste, fasce marcapiano, che si differenziavano dalle specchiature di fondo. Queste alterazioni dell'aspetto cromatico hanno finito per trovare un proprio equilibrio tonale nella città. Se da un lato una corretta analisi storico iconografica, un esame ravvicinato dell'edificio completato da un'indagine di grafica, poteva dirimere i dubbi sulle esatta coloritura iniziale dei materiali dettando quindi tutte le indicazioni per l'intervento di ripristino e di rispetto di una consolidata storicizzazione dell'aspetto, dall'altro lato non si poteva non tener conto degli interventi successivi che, seppur erroneamente condotti, sono diventati prassi e oggi la loro rimozione risulta molto dispendiosa. A valle di queste riflessioni le scelte sono scaturite dalle seguenti considerazioni: il restauro è un processo aperto che pone elementi futuri di conoscenza e si pone prima di tutto come un atto di cultura derivante da considerazioni critiche e non da esigenze pratiche; per il fatto che, in questo caso, l’intervento di tinteggio sia diretta conseguenza di un cosiddetto restauro di necessità non è detto che si debba compiere in fretta una scelta dettata da esigenze pratiche o dal “così ha fatto chi ci ha preceduto”. La scelta dei colori può avvenire per imitazione delle tinte originarie, per consuetudine, per valutazione del contesto, o per nuovo progetto. La propensione per una di queste vie non deve mai avvenire per istinto ma è buona pratica valutarle una per una affinché resti garantito l’intervento come strumento di stimolo alla conoscenza storica, la trasmissione al futuro del patrimonio esistente nella sua integrità, una migliore fruizione dei luoghi. L’iter di valutazione e scelta ha attraversato due aspetti apparentemente disgiunti: l’aspetto storico[5] e l’aspetto percettivo[6]. Ciò perché l'attenzione al colore ha un ruolo fondamentale per un duplice scopo: da un lato la salvaguardia del dato storico della testimonianza documentale, dall'altro la modellazione dello spazio vuoto del cavo urbano ovvero l'ambiente urbano con effetto città. L’elaborazione di un evento cromatico non deve essere percepibile come casuale e, per quanto riconoscibile dalla memoria collettiva, deve anche identificarsi come elemento rivitalizzante che conferisce energia espressiva. Il colore non ha mai una funzione solo estetica; esso ha una enorme capacità (se ben relazionato con architettura, funzione e tecnologia) di influenzare positivamente o negativamente l’umore, le relazioni, il benessere psicologico ed emotivo. La scelta finale evolve verso una mediazione fra gli aspetti citati, il giusto compromesso tra le richieste e le disponibilità della committenza, i principi fondamentali del restauro e la riconoscibilità collettiva della scena urbana nella quale ci troviamo, in considerazione del bene su cui si interviene e del particolare momento storico in cui questa operazione ha avuto luogo. Se per gli addetti ai lavori appare scontato in un'operazione progettuale di restauro partire da ricerche storiche, passare per indagini diagnostiche e approdare alla riproposizione delle cromie originarie, non deve essere altrettanto scontato trascurare il paradigma estetico della globalizzazione col rifiuto di prodotti che l'industria ci propone per soluzioni veloci ed economiche specialmente quando è la committenza a dettare tempi e costi. Le facciate dell’edificio presentano la ben consolidata articolazione suddivisibile in Basamento, Paramento e Coronamento. Analizzandone l’andamento dal basso verso l’alto troviamo per la fascia basamentale, lo zoccolo lapideo, rifinito nella parte superiore da un altro elemento lapideo aggettante rispetto allo zoccolo stesso, a salire il decorato bugnato monocromo; il paramento risulta composto dai maschi murari di facciata lisci e monocrome, ai quali si articolano i rilievi costituiti da cornici modanate, timpani decorati, fasce marcapiano modanate e decorate, marcadavanzale, sottofinestra, lesene; la parte di coronamento è caratterizzata dal cornicione decorato con modanatura e modiglioni tridimensionali, e da un muretto d’attico che ne nasconde parzialmente la copertura inclinata. Questa articolazione ci induce verso la individuazione di due tinte: una per il fondo (colore chiaro assimilabile al rosa calce) e l’altra, in due diverse tonalità (grigio con tonalità calda gradazione chiara, grigio con tonalità calda gradazione scura), per tutti gli apparati decorativi. L’immagine complessiva che si ottiene rimane pressappoco quella che aveva prima dei lavori di restauro, mantenendo forte la riconoscibilità del bene all’interno del contesto, anche se le tonalità di fatto nuove rispetto alle precedenti hanno avuto l’intento di innescare quei meccanismi di sicurezza e benessere psicologico, tali da stimolare comportamenti propositivi. Una scelta che consente di stabilire un rapporto, fra architettura e collettività, emotivamente stabile. Al senso di sicurezza aggiungiamo il piacere originato da un ambiente cromatico armonico. 6. Conclusioni I restauratori, inclusi gli archeologi, gli storici dell’arte e i teorici della conservazione, sociologi, psicologi, che si occupano di Beni Culturali devono essere consapevoli della dipendenza delle loro scienze dalle conoscenze storico-artistiche ma anche delle dinamiche che hanno condotto allo status quo il bene sui cui si interviene: spesso il valore immateriale è molto più elevato di quello materiale. Il restauro di un edificio richiede un approccio multidisciplinare, fatto di studio, di analisi documentale, dimensionale e materica al fine di individuare la giusta metodologia di intervento: a tale processo oltre gli esperti del settore (progettisti, restauratori, maestranze) dovrebbero prender parte anche gli abitanti ovvero i diretti fruitori, poiché la pluralità di valori che conserva e trasmette un bene culturale è di tipo identitario. Solo attraverso questa consapevolezza e questo modus operandi si può attuare un intervento di conservazione che sia di chiara lettura autentica del valore storico-artistico di un manufatto, cercando la giusta misura tra evoluzione e conservazione della memoria storica. Il cantiere di Palazzo Bosco Lucarelli è stato un cantiere complesso, in cui la sinergia fra le figure coinvolte è stata di fondamentale importanza. La figura del Direttore dei Lavori (Img. VI) ha non solo controllato gli aspetti economici nel rispetto delle somme impegnate da progetto, ma ha seguito tutte le fasi esecutive senza demandare, come spesso accade, alle imprese esecutrici le scelte materiche ed operative. La presenza assidua del Direttore dei Lavori in costante dialogo con le maestranze fa si, che ogni singola scelta conservativa derivi da una reale condizione riscontrata sul “campo”, spesso frutto di stratificazioni, di interventi pregressi non storicizzati, o di qualsiasi altra evenienza per le quali sono necessarie scelte operative repentine, affinché non venga mai meno il principio di tutela del bene culturale. L’approccio critico deve essere il faro per ogni intervento di restauro, considerando che esso è un processo aperto, un atto di cultura che va ben oltre la scelta estetica e che restituisce alla collettività ed ai posteri un riferimento riconoscibile e identitario (Img. VII). --- 1. La capacità di investimento del regime fascista, per la realizzazione di opere pubbliche, era consistente soprattutto a Roma e nelle città principali dove l’uso dei materiali lapidei, anche preziosi, raggiungeva livelli di vero e proprio sperpero. Ben diversa era la situazione nelle province più marginali. Alla volontà/prescrizione di dotare gli edifici pubblici di rivestimenti lapidei si contrapponevano le esigenze di spesa degli economati locali. Non deve pertanto sorprendere che l’uso del surrogato artificiale diventasse pratica diffusa e consolidata, nonché particolarmente efficace da un punto di vista estetico. 2. In taluni casi si usava una sagoma di lamiera rigida su cui era tracciato in negativo il profilo voluto, ottenendo un vero e proprio stampo. 3. Fenomeno tipico dell'architettura di riutilizzo dei materiali antichi in costruzioni più recenti con lo scopo di fare economia utilizzando blocchi già pronti anziché produrne di nuovi. 4. Studio condotto dalla professoressa Paola Caruso e degli studenti del liceo classico Giannone. 5. Aspetto storico. Lo studio dell’evoluzione storica del fabbricato ci ha permesso di capire che la pelle di questo edificio è stata più volte rimaneggiata nel corso del XX secolo per via di trasformazioni volute e indotte (come l’abbattimento della contigua chiesa del Gesù che portò alla nascita della nuova facciata su Via Orbilio Pupillo, o i bombardamenti alla fine del II conflitto bellico) che ebbero come conseguenza importanti interventi sulla pelle dell’immobile che dal mattone a facciavista, sulla facciata prospiciente il Corso Garibaldi, passa a un intonaco che uniforma tutte le facciate per via della diversa tessitura e diversi materiali utilizzati per le murature. Questo ci porta già a una importante costatazione: le coloriture (e il loro più prossimo supporto) presenti in facciata non sono originarie a valenza storica testimoniale. 6. Aspetto Percettivo. La sensoriale interdipendenza tra abitanti e luoghi abitati comporta che ogni modificazione debba essere valutata anche tenendo presente la relazione del bene con chi lo fruisce per conferire un senso di sicurezza emotiva, consentendogli una stabile e armonica relazione con l’ambiente circostante, alleviando il più possibile i disagi che potrebbero derivare da una trasformazione radicale che seppure ben motivata potrebbe indurre a una mancanza di orientamento emotivo.
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