di Rossella Del Prete «Attore…ma di lavoro cosa fai?» La domanda, purtroppo ben nota a molti artisti del mondo dello spettacolo dal vivo, è in realtà il titolo di un libro molto interessante a cura di Mimma Gallina, Luca Monti ed Oliviero Ponte di Pino[1]. Il tema è, ancora una volta, quello del lavoro culturale[2], in particolare del lavoro nello spettacolo dal vivo, un tema di una complessità straordinaria sulla quale val la pena di sollecitare sempre nuove attenzioni e approfondimenti di ricerca. Quello dello spettacolo dal vivo è un mondo antico, eppure in continua evoluzione, oggi più che mai, ‘grazie’ all’impatto della pandemia. L’ultimo DPCM relativo alle misure di prevenzione da Coronavirus, quello del 26 ottobre scorso, pone un nuovo stop per cinema, sale teatrali e sale da concerto, producendo un nuovo enorme danno (e non solo economico), per il settore dell’entertainment e della produzione culturale che, faticosamente, stava giusto provando a risollevarsi dagli effetti catastrofici del primo lockdown. Stavolta restano aperti i musei….che, nella stragrande maggioranza dei casi, vivono di fondi e di dipendenti pubblici. Perché il problema è questo: fondi, opportunità e condizioni di lavoro! L’impatto socio-economico che il lockdown ha avuto e, ahimè, continuerà ad avere sul settore culturale, colpirà ancora una volta gli operatori dello spettacolo dal vivo, la categoria in assoluto meno tutelata e più svantaggiata tra i «lavoratori della cultura». Ma la condizione degli artisti e di tutti gli operatori del settore delle performing arts vive una storica precarietà e, per quanto frequentatori degli stessi ambienti di formazione, aggregazione e, infine, di lavoro, lavoratrici e lavoratori dello spettacolo appartengono ad una categoria atipica, che richiede loro individualismo, auto-imprenditorialità, e dunque competizione, caratteristiche che hanno ostacolato, almeno fino ad oggi, la percezione di una condizione lavorativa pari a quella di tanti altri lavoratori. Questa difficoltà di percezione appartiene innanzitutto a loro, prima ancora che al resto della popolazione. E proprio perché individualisti ed atipici, abituati a non rientrare in un sistema di regole e tutele, nel tempo hanno fatto fatica ad abbracciare un sistema di rivendicazioni collettive. Inoltre, data la loro atipicità, unita alla loro consueta precarietà, sono difficili da intercettare, sindacalizzare e, dunque, organizzare. Non esiste un numero statisticamente provato dei lavoratori dello spettacolo. Non si sa esattamente quanti siano e come siano distribuiti sul territorio nazionale. C’è chi sostiene che il loro numero sia certamente esiguo rispetto alla totalità degli occupati, forse perché non considera il fatto che molti artisti o operatori, anche tecnici, del settore spesso sono costretti a vivere con le entrate di un altro tipo di lavoro, talvolta addirittura 'fisso', finendo così con il rientrare nel novero di altre categorie professionali, circostanza che, ai più fortunati, consente almeno di operare nell'ambito del settore culturale di riferimento, ad altri, ahimè, neppure quello. Di sicuro, almeno per quanto riguarda gli artisti o i professionisti della tecnologia applicata alle performing arts, si tratta di forza lavoro altamente specializzata, ad alta scolarizzazione, con esperienze e attitudini alla mobilità, e ad orari di lavoro prolungati, piena espressione di un’economia della conoscenza. Che siano danzatori, attori, musicisti o stuntman, la loro attività richiede un impegno ed una preparazione lunga ed ininterrotta. Un ballerino non può sostenere la sua prestazione coreutica senza un allenamento quotidiano, un attore dovrà imparare a memoria i testi, provare la sua parte e quelle dei suoi compagni di recitazione, un musicista associa ore e ore di studio del proprio strumento e poi di prove d’insieme. E nonostante tutta questa ‘preparazione’ allo spettacolo, tutti dovranno poi cercarsi il lavoro da soli, perché, tranne in pochissime situazioni - come le accademie nazionali, i teatri stabili o le fondazioni liriche, che possono contare, tra mille problemi, su compagnie, corpi di ballo ed orchestre stabili -, per la stragrande maggioranza degli artisti il sistema di reclutamento è davvero molto aleatorio. Proprio nell’economia della conoscenza, le economie della creatività e della cultura possono presentare per i territori notevoli vantaggi sul piano dell’occupazione o su quello della redditività o di minori barriere all’accesso. La loro componente materiale (paesaggi, monumenti, beni culturali) è notevole e quella immateriale (teatro, musica, danza...) presenta un’alta intensità di lavoro umano[3]. Val la pena di ricordare qui il difficile rapporto della liveness del teatro rispetto all’invadenza del virtuale. Contro la vincente concorrenza del cinema e della televisione, il teatro, pur nella sua fragilità, con i suoi piccoli numeri, ha già faticosamente dimostrato la sua forza e la sua resilienza. La chiusura delle sale, imposta dal lockdown, sacrifica il valore della liveness – ovvero l’impatto della fisicità dei corpi – che oggi resta un potente antidoto alla virtuale “vita sullo schermo”, innescando virtuosi meccanismi di partecipazione e di attivazione in grado di incidere profondamente sull’immaginario, esercitando un valore educativo e formativo sulla globalità della persona non trascurabile. Emerge, dunque, una rinnovata funzione sociale, che pratiche nuove e multidisciplinari stanno rifondando proprio nelle attività dello spettacolo dal vivo. Pratiche al momento brutalmente interrotte dalla necessità di allontanare la “fisicità” di certe esperienze, in favore della pratica del “distanziamento sociale” indispensabile al contenimento dei contagi. Nel 2007 il Parlamento Europeo definì lo statuto dell’artista e invitò gli Stati membri a prevedere forme di welfare e di finanziamento speciale per particolari misure di previdenza sociale, soprattutto al fine di garantire protezione nei periodi senza retribuzione. L’Unesco, nel 2008, esortava gli Stati membri a prendere in considerazione la specificità artistica, caratterizzata, come dicevamo, da attività lavorativa atipica, da evidenti variazioni delle entrate, dall’assenza di una definita protezione sociale e di un’identità produttiva: per l’ISTAT, l’INPS e l’INAIL la maggioranza dei lavoratori dello spettacolo è ancora ‘invisibile’. Nel 2010, sempre dall’Europa, arrivava il «Libro verde delle Industrie Creative e Culturali»[4]. Nel 2018 la Commissione Europea promulgava un documento dal titolo «Una nuova agenda europea per la cultura», in cui ribadiva la necessità di assicurare retribuzioni eque agli artisti ed ai creativi. Approfondimenti specifici e raccolta di dati attendibili sono tutti molto recenti e, purtroppo, chiariscono bene l’approccio italiano ai problemi dei lavoratori dello spettacolo e, più in generale, del lavoro culturale che, se in Europa continua a crescere in misura rilevante, in Italia fa rilevare numeri relativi all’occupazione nello spettacolo a dir poco allarmanti. È assolutamente necessario studiarli per ripensare le politiche culturali e, nel caso specifico, creare ed adottare più efficaci interventi per lo spettacolo. Parliamo di una platea di 192mila persone (fonte Istat 2020), con una retribuzione media annua di 4.238 euro. Un livello di reddito palesemente insufficiente e che dimostra che, in molti casi, nel settore culturale, persista un un’enorme percentuale di lavoro nero. Siamo di fronte ad un lavoro caratterizzato dalla complessità: l’informazione è scarsa anche sui reali meccanismi che governano il settore, soprattutto tra i più giovani; la varietà dei ruoli produce un’eterogeneità delle prestazioni tra vecchie e nuove figure professionali, che spesso lottano per la pura sopravvivenza, senza alcuna forma di tutela, per un lavoro troppo spesso subordinato a forme di intermittenza o di auto-imprenditorialità personale e collettiva e che troppo frequentemente deviano nell’auto-sfruttamento. Chi lavora nello spettacolo non ha dunque la percezione di essere parte di una comunità legata dalle stesse caratteristiche e dagli stessi bisogni. Gli manca una dimensione collettiva funzionale e di supporto ad un piano di rivendicazioni sociali, professionali ed economiche. Non è facile inquadrare la figura professionale del lavoratore dello spettacolo dal vivo e non è facile sollecitare regolari versamenti contributivi all’ex Enpals (il fondo pensionistico dei lavoratori dello spettacolo confluito nella gestione separata Inps) oltre tutte le spettanze previste dalla normativa vigente, essenzialmente perché è molto difficile capire di quali regole si stia parlando se, nel nostro Paese, nella maggioranza dei casi, i lavoratori dello spettacolo dal vivo ricorrono al lavoro nero e se, ancora nel 2020, manca un sistema di tutele assimilabile a quello degli altri lavoratori. Per non parlare di tutte le volte in cui, soprattutto agli artisti più giovani, si chiede di lavorare gratis, in virtù di una passione per il teatro o per la musica che in molti stentano a riconoscere come un lavoro vero e proprio, fondato su anni e anni di studio e di perfezionamento. Tutte le professioni creative e culturali hanno l’urgenza di ottenere un riconoscimento formale. Nel 1923 si cominciò a pensarci con un regio decreto, nel 1947 fu istituito l'Enpals, poi l’art. 2 comma 31 della legge 350/2003, infine il riconoscimento, approvato dal Parlamento italiano nel 2007, dello Statuto Sociale Europeo dell’Artista. Oggi dovremmo forse guardare un po’ di più alle politiche culturali adottate in Europa, in particolare al modello francese, basato su un sistema di tutele per gli artisti, ben articolato e più efficace. La crisi generata dalla pandemia ha avuto un impatto devastante sulla vita culturale delle città di tutto il mondo, a diversi livelli: non solo in termini di produzione culturale, ma anche in termini di disuguaglianze di accesso e di partecipazione alla cultura ed agli spazi pubblici. Annullati dall’oggi al domani concerti, spettacoli, festival, mostre e tante altre attività culturali che avevano richiesto mesi di preparazione, di allestimento e di lavoro…. E’ venuta meno la sostenibilità finanziaria di certe operazioni culturali e si è fortemente ridotto il flusso di beni e di servizi culturali. Un primo bilancio dell’impatto di breve periodo sintetizza, con dati drammatici, l’enorme perdita del settore culturale ed in particolare delle performing arts[5]. Per la prima volta, nella storia italiana, in seguito agli effetti della pandemia, tutti gli artisti, scoprendo finalmente una coscienza di classe, hanno davvero percepito l'importanza e l'imprescindibilità del supporto sindacale, per proporre ai parlamentari italiani un progetto di tutele sociali ed economiche per la categoria. Gli artisti e i creativi rientrano nella categoria più ampia dei lavoratori della conoscenza e, come tali, sono portatori di valori, conservatori di memoria e creatori di sviluppo. Un punto di partenza fondamentale è l’eliminazione del lavoro nero per portare il settore a regime. Gli effetti disastrosi del lockdown hanno fatto emergere le difficoltà di molti lavoratori, ridisegnando, quasi completamente, il perimetro delle questioni legate al lavoro nello spettacolo dal vivo. Un perimetro che racchiude attori, musicisti, danzatori ed una pletora di comparse, maestranze, autori, aiuti registi, tecnici delle luci, dei suoni: oltre 190.000 lavoratori che, seppur 'invisibili', sono il motore che garantisce il perfetto funzionamento della macchina dello spettacolo dal vivo e dell’intrattenimento. Quasi tutti «imprenditori di sé stessi», bisognosi di un riconoscimento della propria identità professionale, di un relativo sistema di diritti e, data l’emergenza, di un sistema di interventi di sostegno che arrivi ovunque, non soltanto a coloro già registrati all’ex Enpals, perché sono davvero tanti quelli che sfuggono, talvolta inconsapevolmente, talaltra per necessità, a quel sistema di regole troppo poco aderenti alle reali condizioni di lavoro della categoria in questione. Occorre dunque ridisegnare una cornice normativa molto più larga ed, al tempo stesso, articolarla in maniera più definita. L’estensione delle coperture finanziarie, in questa situazione straordinaria, è stata solo un inizio. Questo secondo lockdown, per quanto parziale, fa emergere, insieme ai problemi, anche la rabbia e l’esasperazione. A queste enormi difficoltà si risponde oggi con contestazioni di piazza, appelli sottoscritti da nomi altisonanti del mondo della cultura, con una prima forma di organizzazione sindacale. Ed ecco che arrivano le prime rivendicazioni, più circoscritte e definite. Ma il problema resta per chi, come i «lavoratori in nero», continua ad essere invisibile anche per i dispensatori statali di bonus di sostegno alla pandemia: i 600 euro distribuiti, con i primi interventi del Governo e delle Regioni, ponevano come precondizione al 'ristoro' il versamento, anche minimo, dei contributi all’Enpals! Dalle piazze più famose di Napoli, Roma, Milano…arrivano le immagini di folle ordinate, ma profondamente esasperate, di lavoratori dello spettacolo che, finalmente insieme, chiedono il «sostegno al reddito» per affrontare questo straordinario vuoto lavorativo. La svolta potrebbe venire dall’applicazione “ragionata” del Recovery Fund e dal Mes, le uniche fonti di finanziamento che, al momento, sembrano aprire una prospettiva vera di cambiamento anche per il sistema di tutele dei lavoratori. Ogni crisi, per quanto disastrosa, è sempre anche un suggerimento, un segno, una precisa indicazione, un’opportunità da prendere al volo. Questa potrebbe essere, finalmente, una straordinaria occasione per investire in capitale umano, in imprese creative e innovative, per rilanciare l’intero Paese, ma ripensando, in maniera efficace, il suo modello di sviluppo. Note [1] M. Gallina, L. Monti, O. Ponte di Pino, a cura di, Attore….ma di lavoro cosa fai? Occupazione, diritti, welfare nello spettacolo dal vivo, FrancoAngeli, Milano 2018. [2] R. Del Prete, Il lavoro culturale, in «Il Giornale di Kinetès», n. 1 (2017), pp. 1-5. [3] R. Del Prete, Istruzione, sviluppo economico e capitale umano: l’economia della conoscenza in Italia nei secc. XIX-XX, in Eadem, a cura di, Saperi, parole e mondi. La Scuola italiana tra permanenze e mutazioni (secc. XIX-XXI), Benevento, Kinetès edizioni 2020, pp. 607-673:666-673. [4] R. Del Prete, Le imprese culturali e creative in Italia: un settore produttivo in crescita, tra occupazione e sistemi di governance, in M. Vetis Zaganelli, L. Síveres, M. Célia da Silva Gonçalves, R. Del Prete (eds), Gestão Pública: responsabilidades e desafios contemporâneos - estudos interdisciplinares, Paracatu, CENBEC-FINOM, 2018, pp. 22-47 [5] Un primo rapporto ufficiale sugli effetti disastrosi del primo lockdown sul settore cultura è il Rapporto dell’United Cities and Local Governments (UCLG) che ha fatto il punto sulle misure adottate dalle città in risposta alla pandemia e sulle prospettive per la ripresa. L’UCLG ha prodotto, sin dallo scoppio della pandemia, oltre ai dati di continui monitoraggi, anche una serie di strumenti utili a sostenere le città ed i governi locali, a indirizzare le loro politiche, in particolare quelle culturali, in risposta all’emergenza. Comments are closed.
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