di Alberto Tanturri Una tendenza ravvisabile in molti studi di storia della scuola comparsi di recente è quella di privilegiare un approccio microanalitico inteso ad analizzare singole realtà scolastiche, illustrandone aspetti strutturali, meccanismi funzionali e modalità operative. Questa tipologia di indagine risulta tuttavia sterile o insufficiente a lumeggiare le caratteristiche generali dei sistemi educativi, e le dinamiche evolutive che ne hanno contrassegnato la storia. Sono pertanto particolarmente benvenute iniziative editoriali come quella qui in esame, che inserendo in un quadro comparativo l’analisi di istituti, segmenti e comparti dell’istruzione nell’Italia degli ultimi due secoli, consentono di percepirne con maggior evidenza linee di sviluppo, apparati normativo-istituzionali e contesti di riferimento. Nel caso specifico, inoltre, fra i trenta autori che hanno contribuito al volume (due terzi dei quali di sesso femminile, a conferma della indiscussa maggiore sensibilità delle donne per questo tema storiografico) compaiono alcuni fra i più importanti nomi della ricerca nel settore, spesso con anni di indagini sul campo alle spalle. Se è dato enucleare un elemento di fondo nella vasta congerie di contributi, assai eterogenei per contesti geografici e caratteri delle istituzioni educative di volta in volta analizzate (si va dall’istruzione nautica alle scuole per levatrici, dalla formazione delle religiose ai licei coreutici) questo consiste, come può leggersi nella Prefazione, autorevolmente scritta da uno specialista come Angelo Bianchi, nella messa a fuoco del “lungo e proficuo percorso che la storia dell’istruzione ha compiuto, almeno a partire dalla seconda metà del secolo scorso, [e] della ricchezza di risultati che ha saputo conseguire”. Nei due secoli che costituiscono lo sfondo cronologico del volume, si è compiuta nel nostro paese una vera e propria rivoluzione educativa, che ha messo capo alla strutturazione di una diffusa rete di istituti scolastici, alla formazione di un corpo docente ampio e consapevole dei suoi compiti, alla creazione di un ramificato apparato dirigenziale e ispettivo, all’affermazione del protagonismo assoluto dello stato nella gestione del sistema educativo, con la marginalizzazione sempre più marcata della Chiesa, un tempo detentrice di una sorta di esclusività funzionale nell’ambito dell’istruzione pubblica. Parallelamente, dal lato dei fruitori dei servizi scolastici, si è assistito ad una progressiva, seppur lenta, diffusione dell’alfabetismo, che portò il nostro paese ad emanciparsi gradualmente da una condizione che, al primo censimento postunitario, lo vedeva affiancato alle più arretrate propaggini meridionali e orientali del continente europeo. Tutti questi fenomeni sono leggibili in filigrana nel volume, sebbene il percorso che emerge dal complesso dei contributi non sia del tutto lineare, ma al contrario mostri un carattere non esente da ostacoli e tortuosità. Il dettaglio delle variegate situazioni in cui è sfaccettato il sistema scolastico pone anzi in rilievo, assieme ai progressi e alle realizzazioni, anche elementi di arretratezza, limiti e disfunzioni. Scorrendo le pagine del volume, ci vengono dunque incontro benemerite iniziative di recupero e inserimento professionale dell’infanzia abbandonata, rigorosi corsi accademici di ostetricia intesi a professionalizzare una categoria di rozze mestieranti, lodevoli cattedre ambulanti di agricoltura fondate su un approccio opportunamente divulgativo e tecnico-pratico, filantropici progetti di educazione professionale, intellettuale e fisica per ragazzi ciechi di entrambi i sessi, raffinate scuole di strumento musicale istituite negli orfanotrofi, per dare ai piccoli ospiti opportunità di inserimento nelle bande e nelle orchestre, moderne scuole nautiche per la formazione di marinai, capitani e macchinisti in grado di sostenere lo sviluppo della marineria, sullo sfondo delle prospettive commerciali emerse dopo l’apertura del canale di Suez. Al tempo stesso, tuttavia, ci imbattiamo in vergognose sperequazioni stipendiali fra maestri e maestre, o anche fra maestri operanti nelle scuole cittadine rispetto ai loro colleghi delle scuole rurali, tassi di frequenza scolastica che vanno a picco con l’arrivo della bella stagione, percorsi formativi frammentati e tali da produrre competenze solo oligoalfabetiche piuttosto che un’alfabetizzazione vera e propria, aule squallide, fatiscenti e prive delle suppellettili più indispensabili all’attività di insegnamento, e maestri talmente infreddoliti da essere costretti ad utilizzare gli arredi scolastici come legna da ardere. Come sempre quando ci si confronta con la documentazione, il quadro che emerge è ricco di chiaroscuri, con squarci luminosi che convivono con ampie e diffuse zone d’ombra. La tesi centrale che emerge dal complesso dei contributi (e particolarmente in quello della curatrice Rossella Del Prete, che, anche per la sua lunghezza, rappresenta uno dei saggi più importanti della raccolta) è quella del rapporto di causa-effetto fra la diffusione dell’istruzione e dell’alfabetismo e lo sviluppo economico. Cara ad un maestro come Carlo Cipolla, che la enunciò nel suo pionieristico lavoro Literacy and development in the West (1969), questa tesi ha goduto di larga fortuna storiografica, e continua tuttora ad esercitare un certo fascino: si pensi, solo per fare alcuni sommari riferimenti, ai lavori di Clara-Eugenia Núñez, Literacy and economic growth in Spain (1990) e di Boris Nikolaevich Mironov, The effect of education on economic growth. The Russian variant, XIXth-XXth Centuries (1990). In termini generali, può dirsi che l’equazione tra istruzione e crescita economica resta valida, a patto che non la si consideri una chiave interpretativa applicabile sempre e dovunque. I recenti studi di Nicholas F. R. Crafts sulla rivoluzione industriale inglese hanno ad esempio messo in luce l’arretratezza delle istituzioni educative britanniche alla vigilia dell’industrializzazione, al punto che la leadership dell’Inghilterra in tale processo può essere considerata assunta non grazie, ma a dispetto del suo sistema scolastico. Analogamente, le indagini di Lars G. Sandberg relative alla Svezia, paese caratterizzato ai primi del ‘900 dai più elevati tassi di alfabetizzazione d’Europa, hanno posto in evidenza come l’istruzione del ceto operaio ebbe uno scarso impatto sulle performances del sistema produttivo, che fu messo in moto principalmente da fattori esogeni quali l’incremento della domanda internazionale di legname e lo sviluppo dell’emigrazione. Piuttosto che proporsi come una regola generale, qualsiasi interazione fra alfabetismo e sviluppo economico andrebbe in definitiva declinata a livello locale. Anche perché, in alcuni contesti, il rapporto di causa-effetto fra i due termini dell’equazione sembrerebbe ribaltarsi, nel senso che fu probabilmente lo sviluppo economico a consentire il decollo di un sistema educativo dapprima scarsamente articolato e funzionale. Solo quando la crescita, avvenuta per dinamiche endogene, produsse degli apprezzabili livelli di benessere, divenne possibile effettuare investimenti in un “bene di lusso” quale il settore educativo. Altri due aspetti impediscono di compiere schematiche generalizzazioni. Il primo è che non sempre la produzione meccanizzata richiede manodopera istruita. Tornando al caso della rivoluzione industriale inglese, il sistema di fabbrica che fu il perno della rivoluzione industriale si fondava sullo svolgimento di mansioni che, essendo semplici rielaborazioni di procedimenti artigianali, non erano minimamente agevolate dal possesso di competenze alfabetiche o aritmetiche. Anche per quanto riguarda l’industrializzazione tedesca, che seguì quella britannica e fu più progredita dal punto di vista tecnologico, è tutta da dimostrare la tesi che essa abbia avuto nell’istruzione tecnico-professionale degli operai un suo punto di forza. Vi è stato chi ha sostenuto che nel caso tedesco i processi produttivi in senso stretto siano stati persino frenati da un’eccessiva mole di investimenti nell’istruzione tecnica della manodopera. Il secondo aspetto riguarda l’individuazione della specifica relazione funzionale fra istruzione e sviluppo. È tuttora oggetto di discussione in che modo la formazione del cosiddetto capitale umano possa influire sulla crescita economica: potrebbe parlarsi in proposito di effetti “allocativi”, consistenti nella maggiore capacità del lavoratore istruito di cogliere le opportunità offerte dal mercato del lavoro, e di effetti “diretti”, riguardanti le ricadute sui processi produttivi della capacità di leggere e scrivere. Oppure, di effetti “indiretti”, derivanti da una maggiore apertura mentale, disponibilità ad apprendere e adattarsi a mansioni diversificate: qualità possedute dal lavoratore istruito in misura certo maggiore rispetto al suo omologo analfabeta. Ma si tratta di aspetti su cui si è tuttora ben lontani dall’acquisizione di vere e proprie certezze, e su cui la discussione fra gli studiosi è tuttora viva ed aperta. Per tali ragioni, oltre a fornire agli specialisti del settore una serie di vaste e approfondite conoscenze sul sistema educativo italiano negli ultimi due secoli, il volume si propone come uno stimolante contributo al dibattito su temi storiografici interessanti e di forte attualità.
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