di Raffaella Salvemini “Là, nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei d’essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua” (Elsa Morante) Quando la Morante scrisse L’isola d’Arturo (1957) non pensava che Procida potesse diventare Capitale Italiana della Cultura 2022. Eppure in questa partita mi piace pensare alla metafora dello “scorfano” che non rinuncia alle sue peculiarità e accetta la sfida. A ben vedere, il progetto culturale dall’ambizioso titolo “la cultura non isola” non confligge affatto con la sua stessa complessa identità ovvero di microcosmo inserito da sempre in un ampio sistema di scambi via mare. Procida è come un guscio che ti protegge, ma non ti trattiene. Eppure trovi pace solo quando la rivedi. Da isolana di nascita posso dire che quel lembo di terra in mezzo al mare entra con prepotenza nella nostra essenza con le sue tradizioni e riti, con i suoi odori e colori, con la sua variegata natura, con i suoi silenzi nella stagione invernale. È un privilegio avere le radici salate. Ma Procida rimane un’isola fragile, minacciata da un rischio idrogeologico che colpisce le sue spiagge e le sue coste; da un’insana circolazione degli autoveicoli e da una certa “svogliatezza” verso uno straordinario patrimonio materiale e immateriale che invece va conservato, recuperato e valorizzato. Puntare sulla cultura vuol dire contrastare quelle fragilità, rispettando quelle peculiarità apprezzate dagli antichi poeti da Giovenale, a Stazio, a Virgilio fino ai tanti viaggiatori del Grand Tour, dal politico francese Alphonse de Lamartine, dagli scrittori del Novecento come Elsa Morante e il critico d’arte Cesare Brandi. Puntare sulla cultura vuol dire sostenere e incoraggiare il lavoro dei giovani. Puntare sulla cultura vuol dire, in particolare per me, raccontare dell’isola la sua storia, visitando le chiese, i palazzi degli armatori, la splendida residenza rinascimentale dei D’Avalos, poi sito reale (1734), bagno di pena (1830) e infine carcere fino al 1988 con i suoi circa ventimila metri quadrati, oltre agli spazi aperti e allo storico tenimento agricolo. Di grande fascino è poi la visita all’antica Abbazia di San Michele. Nella stessa area, nell’ex-Conservatorio delle orfane (1656) e nella cappella della Purità, forse un tempo residenza signorile di Giovanni da Procida, si trova il Palazzo della Cultura con la Biblioteca, il Museo civico dell’isola e un museo dedicato alla storia di Graziella. “Un’isola che non isola”, si diceva, che ha sempre guardato oltre i suoi confini, conquistandosi un peso e un ruolo nella storia sociale, culturale, politica, ma anche, e soprattutto, marittima, nazionale e internazionale. Il viaggio per necessità e per scelta è nella mappa genetica dei suoi abitanti cui non manca la consapevolezza del rischio e della provvisorietà di ogni progetto. Basta poco a spezzare bruscamente i sospirati legami con la terra. Eppure per Procida la distanza dalla terraferma e dall’area dei Campi Flegrei, che partecipa al progetto di Procida capitale, è davvero breve. “Basterebbe un ponte” dicevano gli abitanti di quei territori desiderosi forse di rinsaldare, anche fisicamente, quel rapporto giuridico-amministrativo tra l’isola e il Monte di Procida reciso solo il 27 gennaio del 1907. Del resto, fatta eccezione per una diversa inflessione dialettale, basta soffermarsi sul cognome delle famiglie, o ancor più sbirciare nel curriculum di mare di quegli uomini formatisi nell’Istituto nautico dell’isola per comprendere che quella relazione tra i due territori non si è mai interrotta. Un ponte non ideale è invece quello che dal 1957 collega Procida alla piccola oasi naturalistica di Vivara, la stessa in cui sbarcarono i Micenei. Procida ha il fascino evocativo della “terra non terra” con tutte le contraddizioni e le fascinazioni del mito dell’isola. Nata dall’eruzione di cinque vulcani ha una superficie di circa 4 km² e un perimetro di 16 km, in pratica perfetta da visitare a piedi. Da sempre importante crocevia negli scambi di uomini e merci, Procida conserva evidenti segni di una contaminazione mediterranea nell’architettura, nella lingua, nei costumi. Per l’architettura Toti Scialoja, nella sua introduzione al libro di Giancarlo Cosenza e Mimmo Jodice, così scriveva: Procida era glorificata da un’architettura naturale stupenda, contenuta dalla regola del costruire con tufo e con calce su un ordine cubico concluso da una cupola. Sotto il cubo chiamato casa, e con il medesimo volume, il cubo della cisterna. La cupola, la copertura più armoniosa, era essenziale per la raccolta dell’acqua piovana che scorrendo su di essa era incanalata fino alla cisterna (...) Le case erano una continua variazione dello schema: cubo-cupola-scala esterna-arco. Le case tutte a intonaco smussato e addolcito, erano ridipinte ogni anno. All’interno bianche e calce. All’esterno sempre di un colore nuovo [1]. Girando per le strade dell’isola si ritrova quell’architettura “spontanea”. Soprattutto alla Corricella, che preferisco nelle stagioni fredde e primaverili, si osserva la bellezza di un borgo mediterraneo dove il tempo è scandito da un ritmo lento riscaldato dal sole. In quel microcosmo pedonale gli uomini, impegnati nella pesca delle alici, riparano ancora sulla banchina le reti mentre i gatti si godono il vento caldo di scirocco. Le case della Corricella oggi appaiono come un’esplosione di colori, forse lontane da quelle tenui sfumature a calce, sbiadite e sensibili alle piogge. I colori trionfano nell’abito di Graziella, dal nome della giovane protagonista del romanzo di Alphonse de Lamartine, un abito apprezzato, descritto e rappresentato da pittori e viaggiatori dell’Ottocento [2]. Al centro di ricerche e pubblicazioni l’abito, indossato dalle ragazze di origini procidane, che partecipano all’estiva manifestazione della Sagra del Mare, è oggi per molti il simbolo stesso dell’Isola [3]. La cultura, dunque, come espressione di una storia millenaria in cui si avvicendano mito e realtà a cominciare dalle leggende sull’origine del nome dal greco prochyo, cioè profusa, terra sollevatasi dalle profondità del mare. Molti autori sono partiti proprio dal nome per avviare sintetiche trattazioni dedicate a uomini, tradizioni e pratiche religiose. Questo è lo schema seguito nel 1586 da Scipione Mazzella che omaggia Procida, ricordando da un lato i feudatari come Giovanni da Procida, coraggioso condottiero e medico in età medievale, e Don Innico D’Avalos, Cardinale d’Aragona, che realizzò “un superbissimo palazzo”, e dall’altro gli uomini di scienza come il medico procidano Salvo Sclano, autore degli Aforismi di Ippocrate. Mazzella non trascurò la fede con cenni ai luoghi pii dell’isola, oltre alla preziosa e venerata reliquia di Santa Margherita vergine e martire proveniente da Antiochia [4]. Nel Seicento Giulio Cesare Capaccio, nella sua conversazione con Il Forastiero, ritorna sul mito del nome e sulla generosità della flora e fauna dell’Isola, con la «nobilissima attività di pescaggione» sulle spiagge di Sancio Cattolico, Corricella e nel lido di Annanello (o asinello), dove tra «l'arena color di piombo» c’erano «acque dolci» di cui oggi non vi è più traccia [5]. Capaccio ricorda gli uomini di scienza, esalta la sede del potere politico, quel Palazzo D’Avalos degli architetti Tortelli e Cavagni, e i luoghi della spiritualità, come il “nuovo monastero dei padri domenicani” che dalla sua originaria sede sull’isola, su Santa Margherita Vecchia, fu spostato dagli stessi D’Avalos “per tutelare i fagiani” nel nucleo fortificato di Terra Murata. Oggi di quell’antico complesso monastico è stata recuperata la chiesa la cui vista mozzafiato affascina gli ospiti delle numerose manifestazioni culturali. Come raccontano le cronache Procida, sin dal Medioevo, era molto apprezzata. Dall’epoca angioina, dignitari della corte napoletana, ospiti delle famiglie nobili feudatarie come i da Procida, i Cossa (1339-1529) e i D’Avalos (1529-1734), si fermavano per brevi o lunghi periodi, attratti dalla ricca fauna, ma anche nel rispetto di precisi e rigorosi protocolli politico-istituzionali. Secondo l’etichetta reale, il successore di un viceré spagnolo non poteva entrare a Napoli se il suo predecessore era ancora a Palazzo. Nell’attesa che si liberasse la sede, il successore alloggiava in una delle residenze della nobiltà napoletana dislocate nelle isole di Ischia o Procida e nelle ville di Posillipo, Mergellina, Piedigrotta e Santa Lucia [6]. E così, prima della nomina a viceré in Sicilia, vi si fermò nel 1603 Lorenzo Suárez de Figueroa y Córdoba, duca di Feria [7]. Nel giugno del 1610 giunse sull’isola il conte di Lemos, Pietro Fernandez di Castro successore del viceré Benavente. In tanti arrivarono ad omaggiarlo e anche i Procidani non si risparmiarono, offrendo “regali dolci” [8]. Nel maggio del 1620 arrivò in gran segreto a bordo di una feluca il futuro viceré, il Cardinale Borgia Gaspar de Borja y Velasco. Dieci anni dopo, nel 1630, approdò anche la regina Donna Maria d’Austria, sorella di Filippo d’Austria, quarto re di Spagna, futura moglie di Ferrante d’Austria, figlio dell’imperatore e re d’Ungheria. La notizia dell’epidemia di peste a Genova impose un nuovo itinerario. E così, nel viaggio verso il suo sposo, si pensò di fare scalo a Napoli. Ma prima di raggiungere la capitale la regina Donna Maria, con le sue 25 galere al seguito, fu accolta nel palazzo del marchese del Vasto. La dimora era tale da “ricevere una così gran principessa, così tutto il suo seguito, tra cui il cardinale di Guzman arcivescovo di Siviglia e il duca d'Alba “che la servirono nel viaggio”, ospitati “tutti in appartamenti separati e divisi”. Furono giorni impegnativi e di gran festa per l’isola. Dopo otto giorni quella regina di rara bellezza, come raccontavano i contemporanei e un ritratto a lei dedicato dal pittore Velasquez esposto al Museo Del Prado, si trasferì a Posillipo [9]. Nei secoli successivi agli illustri ospiti dell’Isola si uniranno i viaggiatori. Procida entra nelle Guide di viaggio del Settecento con maggiori dettagli sul territorio, l’economia, i costumi. Così il filosofo irlandese George Berkeley, nel 1716, ne descrive, oltre la generosità di terra e mare, la densità di popolazione, che si aggirava tra le otto-diecimila anime, e la ricca marineria dove si contavano 200 feluche e 50 tartane [10]. Il richiamo di Berkeley alla gente di mare ci proietta in una dimensione diversa legata al lavoro e all’economia marittima, alla navigazione e soprattutto ai rischi di mare che nel Cinquecento imposero all’Isola un’architettura difensiva. Dopo le incursioni barbaresche nel golfo di Napoli nel 1544, ad opera di Khair ad-dīn, Barbaróssa, e di Sinan Pascià nel 1551, 1558, 1561, il duca d’Alcalà Don Perafan de Rivera nel 1563 decretò la ristrutturazione e la costruzione di torri di avvistamento. In quegli anni fu realizzato Palazzo D’Avalos e, al posto della medievale Terra Casata, nasceva la Terra Murata, un organismo urbano fortificato cui si aggiunsero, fuori dalle mura, i vari borghi abitati dell’isola [11]. La popolazione di Procida registrò nel Seicento un netto aumento, passando dai 3.000 ai 5.000 abitanti alla fine del secolo. Il mare, i porti, le spiagge, in quei secoli, non erano sicuri e per far fronte ai rischi della pirateria, sulla scia di analoghe iniziative, nel 1617 i padroni di barche della zona del porto di Procida, detto di Sancio Cattolico, decisero di fondare un Monte di Mutuo Soccorso e una chiesa intitolata a Santa Maria SS.ma della Pietà, San Giovanni Battista e San Leonardo. Obiettivo delle somme raccolte dal nuovo ente laicale era la tutela della gente di mare con il riscatto dei marinai in schiavitù, la sepoltura e l’assistenza agli anziani, alle vedove e la dote alle fanciulle più povere. Di quell’antica storia del Monte dei Marinai, ancora oggi attivo, rimangono le riggiole murate sulle facciate delle case di proprietà dell’ente nella zona di Sancio Cattolico. Non sappiamo quanti furono i Procidani finiti nelle mani dei Turchi, ma è certo che la popolazione dell’isola non si lasciò scoraggiare dalla pirateria. Continuarono a navigare e a costruire imbarcazioni come tartane e marticane e, nell’Ottocento, brigantini a palo, lungo la banchina e nella zona della Lingua e delle Grotte animando così i commerci con la terraferma [12]. Il legame tra l’isola e il mare si consolidò e si perfezionò con l’arrivo di Carlo di Borbone, nel 1734, e l’uscita di scena dei D’Avalos. Per combattere la concorrenza marittima straniera, fondamentale era la preparazione degli equipaggi e così, dopo Napoli (1767) e il Collegio nautico di Meta e Carotto (1770), anche a Procida (1788) nacque una classe di nautica per la formazione della gente di mare. Supporter del progetto, che portava la firma dell’Università dell’Isola e dei padroni di barche, fu il sacerdote Eusebio Marcello Scotti. Autore di un Catechismo Nautico su i doveri civili, morali e religiosi dei naviganti da applicarsi anche al commercio, fu uno degli autorevoli rappresentanti di quella élite culturale che trasformarono Napoli in una grande capitale culturale europea. Ma Scotti purtroppo non riuscì ad occuparsi della scuola e fu giustiziato dalla repressione borbonica nel 1799 unitamente ad altri martiri isolani, di cui oggi si conserva una lapide nella Piazza dei Martiri dell’isola che ricorda proprio quel sacrificio. Trascorso il primo trentennio dell’Ottocento, la marineria procidana si riorganizzò. E così, nel 1833, unitamente agli entusiasmanti dati sulla flotta mercantile, composta da 220 navi tra bastimenti, tartane e paranzelli, si inauguravano una nuova scuola nautica comunale e un cantiere [13]. Alla metà del secolo, la flotta sorrentina conquistò il primato per le dimensioni dei suoi scafi e la flotta procidana si aggiudicò quello della consistenza numerica del naviglio. I Procidani sbarcarono in Nord Europa, nel Baltico e a Odessa, nel mar Nero, sulla costa occidentale dell’Africa, nelle Antille, in Martinica e in Brasile [14]. Una colonia di pescatori procidani s’insediò in Algeria, a Mers-el-Kebir. Il ruolo e il peso della marineria procidana non tramontò nel periodo post-unitario. Si parla infatti di “età dell’oro” con il consolidarsi del fenomeno delle “famiglie armatoriali”. Nel frattempo l’isola, che aveva già sperimentato la mutua assistenza, non disdegnava l’impegno nel settore delle assicurazioni e della finanza. L’avvento della navigazione a vapore segnò il progressivo declino della gloriosa marineria procidana. La sua gente di mare, tuttavia, continuò a partecipare, a vari livelli, dai calafati ai piloti, alla grande impresa del vapore nel Canale di Suez, inaugurato nel 1869. Dal Novecento a oggi, il legame con il mare, la navigazione e la formazione di un capitale umano specializzato non si è mai interrotto e i procidani sono presenti in tutte le marinerie del mondo. A conclusione di questo breve viaggio nella vita e nella storia di Procida non mi stupisce affatto l’assegnazione del titolo di Capitale Italiana della Cultura 2022. Sono sicura che questo microcosmo salato continuerà ad occupare un posto di rilievo nella storia del nostro Paese e che da questo scoglio giungerà nuova linfa vitale per risollevarci dal nostro presente. [1] Introduzione di Toti Scialoja in G. Cosenza, M. Jodice, Procida un’architettura del Mediterraneo, Clean edizioni, Napoli 1986, p.11. [2] A. De Lamartine, Graziella, Librairie de L. Hachette, Paris 1853. [3] E. Montaldo, C. Sarnico, L' oro del mare. L'antico costume delle donne di Procida, Dante & Descartes, Napoli 2009. [4] S. Mazzella, Descrittione del regno di Napoli, Gio. Battista Cappello, Napoli 1586, pp. 4-5. [5] G. C. Capaccio, Il forastiero, Gio. Domenico Roncagliolo, Napoli 1634, p. 952. [6] S. De Cavi, El Possesso de los virreyes españoles en Nápoles (siglos XVII-XVIII), in El legado de Borgoña. Fiesta y ceremonia cortesana en la Europa de los Austrias (1454-1648), a cura di K. De Jonge, B. Garcìa, A. Esteban Estringana, Fundación Carlos de Amberes - Marcial Pons Historia, Madrid 2010, pp. 323-357. [7] Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli: 27 maggio 1597 - 2 novembre 1604, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1991, p. 449. [8] Diurnali di Scipione Guerra, in Società Napoletana di Storia Patria, serie I, Cronache, Giannini, Napoli 1891, p. 84. [9] G. C. Capaccio, Il forastiero, cit., pp. 952-953. [10] E. Mazzetti, Capri, Ischia e Procida: dal mito alla metropoli, Electa, Napoli 1999. [11] C. De Seta, A. Buccaro, a cura di, I centri storici della provincia di Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009 pp.191-192; S. Di Liello, P. Rossi, Procida architettura e paesaggio. Documenti e immagini per la storia dell'isola., Nutrimenti, Roma 2017. [12] S. Zazzera, Procida marinara, Edizioni napolitane de il Sebeto, Napoli 1997. [13] P. Avallone, R. Salvemini, Gente di mare. Capitale umano e finanziario a Procida nell’Ottocento, in S. Capasso, G. Corona, W. Palmieri, a cura di, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall'Italia, il Mulino, Bologna 2020. [14] G. Di Taranto Procida nei secoli XVII-XIX. Economia e popolazione., Droz, Ginevra 1986.
“Quante isole e quante utopie emergono e affondano nel tempo?
L'isola è luogo di esplorazione, sperimentazione e conoscenza, è modello delle culture contemporanee; l’isola è l’altrove per eccellenza, nasconde tesori o è meta di fuga, espediente di ricerca della felicità. L’isola è regno di doppi: apertura/chiusura, accoglienza/esclusione, libertà/reclusione, legame/distanza. Dualità identitarie che svilupperemo nei principi e nel programma culturale.” Procida 2022 La cultura non isola I commenti sono chiusi.
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