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di Barbara Galli Quando si pensa a un museo siamo istintivamente portati a immaginare alcuni prototipi quali il Guggenheim, gli Uffizi, il Louvre, il British Museum solo per citarne alcuni. Essi si configurano nella nostra mente come Wunderkammern, camere delle meraviglie, dove si materializzano le opere che abbiamo ammirato nei testi di Storia dell’arte. La nuova definizione di museo stilata il 24 agosto 2022 a Praga durante l’Assemblea Generale Straordinaria di ICOM sembra riprendere questa cultura immaginifica: «il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».[1] La definizione, data da ICOM, “rincuora” gli operatori, ma non si può non analizzare un fenomeno, che aveva già messo in evidenza Ernst Jünger negli anni Venti2, ovvero la massificazione culturale di questi luoghi. Il filosofo tedesco definisce questo fenomeno «approccio da museo, che oggi è diventato, per diverse ragioni, più facile e allo stesso tempo più difficile di un secolo fa. Nel mondo intero chiese e templi si convertono in attrazioni turistiche, e ciò non accade tanto per la densità dei nugoli di viaggiatori, quanto per tutte quelle considerazioni di storia dell’arte e filosofia della religione che, però, non giungono al cuore del fenomeno […] Il turismo moderno contribuisce al livellamento».[3] Questo processo, che caratterizza il mondo museale da più di un secolo e che ora si è trasformato nel museo fast food, riesce a convogliare masse di turisti nei grandi musei, che hanno la possibilità di poter promuovere sempre nuove iniziative, lavorando sulle tematiche che ritroviamo nella definizione ICOM. Se apriamo il vaso di Pandora e ci guardiamo all’interno, però, vedremo una situazione completamente diversa: piccoli musei civici e statali o collezioni private sono istituzioni che corrispondono alla descrizione di museo data da ICOM o dovremmo definirle con altro termine? I musei statali minori, quelli che hanno in un anno dai 5.000 ai 15.000 visitatori, sono veramente in grado di operare, promuovendo «la diversità e la sostenibilità», sostenendo «la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze»? La risposta è - per molti di questi luoghi - no, questa definizione di museo non vi si adatta. Essi sono piuttosto l’irraggiungibile paese delle meraviglie, ambienti in cui è possibile leggere le «eterotopie [che] inquietano, senz'altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” […] quella meno manifesta che fa “tenere insieme” le parole e le cose».[4] La loro diversità fa sì che si decida di non considerarli, perché rompono la perfetta armonia circoscritta nella definizione di museo, i paesi delle meraviglie pongono l’attenzione sulla frammentarietà e aleatorietà che caratterizza i musei della contemporaneità, non prenderne atto vorrebbe dire cancellare gran parte delle strutture che caratterizzano il territorio nazionale e che sono fondamentali per la costruzione della narrazione storica, ma soprattutto sono i veri luoghi in cui si può attivare un rapporto stretto con la comunità. Essi sono in grado di promuovere una conoscenza che presenta tratti legati all’immaginazione, perché di norma – grazie al loro radicamento territoriale – sono in grado di produrre nel «visitatore un processo immaginativo».[5] Il rapporto con l’ambito territoriale è fondamentale, ma spesso questi paesi delle meraviglie non hanno il personale per poter rimanere aperti, hanno costi per il conto terzi esorbitanti per una pubblica amministrazione e per un privato, che preferiscono investire su luoghi di maggior richiamo. Effettuare ricerche, collezionare, conservare, interpretare ed esporre adeguatamente il patrimonio materiale e immateriale sono aspetti di fascino e sicuramente connessi alle priorità di un luogo espositivo, ma se il museo si riduce a un direttore e agli addetti all’accoglienza non è possibile operare su tutti questi livelli e quindi si dà di norma la priorità alla messa in sicurezza delle strutture di accoglienza, ai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, cercando di non perdere di vista il fine ultimo dell’istituzione museo che è dare a tutti con sistemi comunicativi diversi una conoscenza sugli oggetti esposti e sul loro contenitore, ed essere in grado di fornire gli strumenti per poter costruire la traiettoria «che […] collega [la cosa guardata] alla cosa che guarda. Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l'intenzione di significare qualcosa».[6] Un sistema di continuo dialogo con il territorio Tra i paesi delle meraviglie invisibili si può annoverare anche il Museo della Cappella Espiatoria di Monza, che per molti anni è stato celato alla comunità, simbolo di un tragico avvenimento: l’uccisione di re Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci il 22 luglio 1900. Lungo il viale che conduce a Villa Reale vi è una strada pedonale, affiancata da due giardini, sullo sfondo un edificio imponente e austero: la Cappella Espiatoria, luogo della memoria dell’assassinio di re Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci il 29 luglio 1900. Il monumento racconta una parte della storia d’Italia legata non solo alla famiglia reale, ma anche al movimento anarchico di fine Ottocento e alle vicende di un giovane Benito Mussolini, giornalista dell’Avanti. Tale storia, fatta di diverse fazioni, influenza anche l’edificio – progettato da Sacconi e portato a termine dopo la sua morte, avvenuta nel 1905, dal suo allievo Cirilli - nell’austera e imponente stele di 35 m., arricchita da pochi elementi decorativi tra cui spiccano la croce in alabastro, la pietà e la terminazione bronzea. Attraversata la cancellata in ferro battuto con elementi floreali e vessilli di romana memoria – realizzata da Mazzucotelli -, si incontra la scalinata monumentale che conduce al Sacello. Aperta la pesante porta scorrevole in bronzo e alabastro si è accolti da un Cristo a braccia aperte, contornato da angeli reggenti simboli della passione e tondi con santi e beati della famiglia Savoia. Marmi pregiati disegnano lo spazio e al centro della pavimentazione un disco rosso sangue a cui fa da contraltare sulla cupola un disco in alabastro con agnello sacrificale. Margherite, disegnate con un filo d’oro, rendono onore a un altro protagonista di questa storia: la regina consorte. Dietro al Sacello altre rampe di scale conducono alla Cripta, al centro un cippo nero, ricorda il luogo dove è stato ucciso il re. Il cippo è protetto da una volta con mosaico dove torna il colore rosso sangue, al centro un sole crea un immaginifico filo verticale che collega tutti gli ambienti, negli angoli decorazioni con pavoni, simbolo di resurrezione e vita eterna. Il tutto è contornato da un mosaico con cielo stellato, gemme preziose, marmi, alabastro e corone votive testimonianze di associazioni e paesi lontani. Fuori il giardino, chiuso da un’esedra, sembra voler proteggere lo spazio da ciò che lo circonda e la luce che lo investe si traduce all’interno della cripta in luci e ombre che si rincorrono. La chiusura del museo, causata dal numero ridotto di personale addetto all’accoglienza in servizio, lo ha fatto diventare un luogo serrato in sé stesso, facendogli perdere il ruolo di strumento privilegiato della politica culturale al servizio della collettività. La gente passava distratta davanti alla sua cancellata, quasi rassegnata al fatto che fosse chiuso. Da alcuni anni, a fatica e partendo da una definizione che ha caratterizzato tutto il lavoro svolto – “visita, esplora, partecipa, agisci nel locale, ma pensa globale, perché il patrimonio è memoria, ma anche laboratorio di elaborazione del futuro” - si è cercato di far diventare il museo un luogo aperto e soprattutto attivo all’interno della propria comunità. Questo ha fatto sì che tutti andassero oltre i loro compiti e lavorassero oltre il loro orario, a volte anche durante le giornate di riposo, sempre in sinergia. I visitatori sono diventati parte attiva del museo, al pari delle sue mura, delle sue opere e di chi vi lavorava. Il fine era quello di dare una nuova identità al luogo attraverso un’apertura costante e mettendo in atto strategie che permettessero di creare un sistema di continuo dialogo con il territorio. Tale fase di sperimentazione è stata fondamentale per poter comprendere tutte le potenzialità di questo spazio; consapevoli che tale innovazione abbia generato nei primi periodi un caos controllato, aspetto che risulta fondamentale per i piccoli musei e che non rientra assolutamente nella definizione data da ICOM. Non è facile, infatti, indicare da subito un percorso lineare, che porti a un’identità chiara e definita del museo, soprattutto se la comunità lo percepisce nell’immaginario collettivo come un luogo chiuso e inaccessibile. Questa fase ha visto il museo protagonista di differenti eventi: esposizioni di design, concerti, letture poetiche, visite guidate con gli studenti di alcuni istituti e licei del territorio. Dall’analisi di tale sperimentazione è emerso che pur nella eterogeneità degli eventi era sempre ben presente un elemento costante: la matrice storica, che è insita nella capacità di questo luogo di raccontare sé stesso come parte di una storia più ampia, questa sua peculiarità concorre a non farne perdere l’identità. Non è mai contenitore, ma in qualsiasi momento è sempre protagonista, come se il suo valore fosse strenuamente intrinseco e superiore a qualsiasi evento si organizzi al suo interno. L’evidenza storica del museo è un chiaro e tangibile collegamento con il periodo in cui è stato realizzato, con la parte di società che lo ha voluto, con quella che lo ha contrastato e con le reti di relazioni intrecciate intorno a esse. Questo ci ha permesso di comprendere che questo luogo ha già una sua identità che è quella di narrare sé stesso e un periodo storico ben definito della storia d’Italia. Per questo si è iniziato a promuoverlo come luogo in cui la storia diviene innovazione, per immaginare il futuro e far riemergere i fili di continuità, che collegano la vita attuale di una comunità alle proprie radici. Si è deciso di ripartire proprio da questi elementi, letti attraverso la percezione che i visitatori hanno del luogo, cercando di creare nuovi strumenti di attrazione, consapevoli che «i veri musei sono quei posti dove il tempo si trasforma in spazio».[7] Il fattore percettivo aveva influenzato molto le scelte progettuali, messe in atto dai due architetti che si sono succeduti nella realizzazione del monumento commemorativo: Sacconi e Cirilli. Esso avevano proceduto con la predisposizione di due elementi che da una parte concludono lo spazio della Cappella Espiatoria mediante un’esedra, schermo visivo dell’ambiente circostante, e che dall’altra lo aprono con un viale alberato definito da due aree a verde recintate che vengono terminate anch’esse con elementi curvilinei per creare uno spazio di invito dal viale che conduce alla Villa Reale. Le relazioni fisiche non favoriscono, però, la connessione con il territorio e il visitatore è portato a percepire il sito monumentale come elemento estraneo al contesto sia territoriale che culturale. Si è, dunque, lavorato sulla comunicazione, predisponendo nuovi supporti esplicativi e fornendo visite guidate organizzate dal personale addetto all’accoglienza, che non solo raccontassero la storia del museo, ma anche il lavoro che ogni giorno è attuato per rendere il luogo fruibile, ovvero tutti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che costantemente sono approntati per migliorare la visita. I commenti lasciati dai visitatori, anche in questo caso, sono stati utili per definire alcune criticità e per poter intervenire, convinti, che «i risultati vengono prodotti […] soprattutto dal tipo di interazioni che si pongono tra le persone che operano all’interno dell’organizzazione e tra queste e i soggetti esterni».[8] Nel museo della Cappella Espiatoria, pur attraverso diverse difficoltà, si è riuscito a lavorare con le associazioni del territorio e soprattutto con i visitatori, il suo giardino è diventato un luogo dove fermarsi per leggere o ritrovarsi insieme per chiacchierare, ma questo è solo un piccolo museo, un paese delle meraviglie senza una folla di visitatori, ma importante per la propria collettività. Durante il periodo pandemico di chiusura abbiamo operato cercando di andare oltre, abbattendo le barriere dello spazio e del tempo e rendendolo comunque fruibile a tutti attraverso i social, in modo da raccontarlo in ogni istante senza orari di apertura e chiusura. Abbiamo raccontato in modo empatico ed emozionale le giornate del museo, i lavori che stavamo facendo. Dopo questa esperienza, ci aveva accarezzato l’idea di dar vita a un Museotoker, uno spazio social in cui i giovani potessero raccontare le loro esperienze all’interno del museo, postare live e creare le proprie “storie”; dal luogo fisico al digitale per tornare al soggetto museo, ma è subito iniziato il turbinio delle manutenzioni e della corsa verso la risoluzione delle mille problematiche che ogni giorno si pongono nei piccoli musei, privi di personale. I piccoli musei, in fondo, non sono altro che un «orizzonte mobile nello spazio e nel tempo ma [stabili] nei sentimenti che [suscitano]»9, «quindi noi lavoriamo su tutti i sensi dei nostri visitatori, sapendo che sono loro gli attori della visita. Noi non somministriamo, non divulghiamo. Creiamo un contesto di apprendimento» (Lanziger, 2017), creiamo una Wunderkammer, sperando che un giorno, pensando a un museo, in un visitatore si formi nella mente l’immagine di uno di questi piccoli musei. --- 1. Il 24 agosto 2022, nell’ambito dell’Assemblea Generale Straordinaria di ICOM a Praga, è stata approvata la nuova definizione di museo, la cui stesura ha coinvolto 126 Comitati nel mondo, che va a modificare l’Art. 3 dello Statuto di ICOM. 2. Si veda anche E. Jünger, Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci., Guanda, Venezia 1994. 3. A. Scarabelli, Ernst Jünger: «Frammenti di un diario» (1965-1968)., ll Giornale Blog. [Online] 17 aprile 2017. 4. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane., Rizzoli, Milano 1998, p. 7-8. 5. L. Jordanova, Oggetti di conoscenza: una prospettiva storica sui musei., in C. Ribaldi. Il nuovo museo. Origini e percorsi. Il Saggiatore, Milano 2005, p. 171-190, p. 173. 6. I. Calvino, Palomar. Einaudi, Torino 1983, p. 117. 7. O. Pamuk, Il museo dell’innocenza. Einaudi, Torino 2009, p. 39. 8. B. Bernardi, Economicità e gestione del museo., in -A. Roncaccioli, L'azienda museo: problemi economici, gestionali, organizzativi. Cedam, Padova 1996, p. 25-34, p. 27. 9. D. Del Giudice, Orizzonte mobile. Einaudi, Torino 2009, cfr. quarta di copertina.
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