Natalino Russo, giornalista e fotografo, naturalista e speleologo, è autore di saggi, articoli e libri i cui contenuti variano dalla letteratura di viaggio, alla narrazione geo-storica, alla cultura del cammino e dell'esplorazione. Dai ghiacci della Norvegia alle grotte del Messico, la sua scrittura intreccia annotazioni geografiche, pensieri da antropologo, approfondimenti storici e osservazioni da biologo. In questo libro dedicato al Matese, vera "montagna sacra" nella biografia di Natalino Russo, la narrazione si lascia andare alla poesia. L’Autore lo fa nel modo che gli è più congeniale, offrendo al lettore immagini selezionate dalle migliaia che egli ha realizzato nel corso degli anni. Nell'uso del mezzo fotografico – manifestando la propria attenzione al disegno delle ombre e dei riflessi luminosi, più che alla forma – egli esprime una inclinazione e un pensiero, allo stesso tempo antico e modernissimo, che è in fondo all’origine stessa della “scrittura della luce”. L'inflazione delle immagini propria del nostro tempo tende a banalizzare l'oggetto fotografico ridotto ora a cascame linguistico (mero sostituto visuale di linguaggi strumentali degradati e impoveriti) ora a feticcio, esaltando e sacralizzando la rilevanza iconica della forma-in-sé (il mondo esterno). In tutt’altra direzione, lo sguardo dell’Autore parte dalla superficie luminosa degli oggetti (paesaggi, corpi, manufatti) per attingere a orizzonti di conoscenza emozionale del mondo interno. Il risultato che ne consegue, tutt'altro che intimistico o documentaristico, è quello di una lirica dello spazio, dove i luoghi assurgono a soggetti trascendenti, riflesso di una bellezza universale, sui quali al contempo può proiettarsi una gioiosa, profonda, serena esplorazione ed elaborazione introspettiva. Così è per le immagini aperte del Lago, del Mutria, della Gallinola, del Miletto, per la veduta profonda che da San Gregorio Matese traguarda le colline di Caiazzo, per i boschi innevati e i ritmi di tronchi contorti, per i disegni del ghiaccio sulle foglie e delle curve stradali lungo i declivi montani, per le solitudini di alberi e di rifugi. Il sapiente disegno della luce ci restituisce scenari talora surreali, a volte astratti, quasi graffianti (Le Carbunere), comunque formidabili sollecitazioni per la sfera emozionale. La montagna ne emerge, non solo madre, ma matrice di senso e polimorfo contenitore di archetipi. Lo stesso registro cromatico, adoperato dall’Autore solo in alcune foto, consente di ritrarre i soggetti come in una miniatura naturalistica, senza enfasi, così-come-sono: in certi casi le immagini, ridotte nel timbro coloristico fino al limite della discrezione, grazie anche all’alta definizione, appaiono pulite e asciutte come acquerelli botanici (Verso Letino). Pur nel piccolo formato, ciò consente al lettore di entrare nella pagina come in un mondo di fiaba, che si realizza nello spazio interno dell’osservatore. Le figure umane, lontane dai luoghi comuni della foto-cronaca e del “pittoresco”, nelle immagini di Natalino Russo paiono personaggi universali, appartenenti al mondo frugale e mitico della montagna, fissati nella loro nuda verità: così il danzatore e il fisarmonicista di Cusano, i giocatori di carte di Miralago, il vasaio di San Lorenzello, i boscaioli di Sepino, il mulattiere di Campochiaro, il pastore di Campo Puzzo. La modernità del mezzo fotografico allontana qualsiasi suggestione di Arcadia contemporanea, quando nell’obiettivo appaiono – reali – alcune pale eoliche sullo sfondo del pascolo di un gregge, o i laschi cavi elettrici sospesi a un muro antico a Pietraroia, o ancora l’equipaggiamento tecnico dello speleologo all’imbocco della grotta. Ogni immagine, in sé, apre a uno spazio contemplativo, che non risparmia il mondo notturno, in due scatti che vedono protagoniste le ombre proiettate dalla luce lunare o da una lampada posta in una tenda da campo. Si potrebbe affermare che il Matese, dall’album fotografico proposto da Natalino Russo, risulta narrato, nella sua unicità e complessità, in forma di variazioni. Ciò suggerisce più di una assonanza con alcune osservazioni svolte da Glenn Gould riguardo le celebri Variazioni Goldberg di J.S.Bach, laddove si afferma che le variazioni non appaiono ricercate in una costruzione organica, dotata di un punto culminante o di una risoluzione, ma sono comprese in una “comunità di sentimento”: per il Matese, quasi un presagio della Comunità del Parco Nazionale, che si vorrebbe a tutela di un ambiente dove uomo e natura possano continuare a vivere nel reciproco rispetto. Per dirla con Gould, il carnet fotografico di Natalino Russo, nelle sue variazioni, ci restituisce un Matese “che non conosce né inizio né fine”, nella sua unicità e unità. Che è, infine, unicità e unità di un’opera fotografica realizzata con rigore ed esperienza, offerta con quel tono familiare, sommesso, frutto di un mestiere consumato e vestito di modestia, come sanno fare i veri Maestri.
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