di Rossella Del Prete Questo numero de Il Giornale di Kinetès vede la luce molto in ritardo rispetto alla scadenza prevista. Le motivazioni sono diverse, alcune molto personali, altre di natura tecnica, ma tutte tali da giustificare molto seriamente il vuoto degli ultimi mesi. Ce ne scusiamo immensamente: con i nostri lettori e con gli autori e le autrici dei contributi raccolti in questo numero, innanzitutto; con tutti i nostri preziosissimi collaboratori, poi. Riprendiamo le nostre riflessioni sul valore del patrimonio culturale, della memoria collettiva e dell’economia che regola molte delle sue dinamiche in un momento storico ancora più difficile di quello appena ‘superato’ della pandemia da Covid-19, di cui avevamo già analizzato, in alcuni dei contributi degli ultimi numeri della Rivista, le conseguenze economiche e sociali. Oggi il tema è ancora quello della crisi che attanaglia il mondo e le professioni dell’arte e della cultura, ma è un tema che non avremmo mai pensato di dover (ri)discutere in Europa: è il tema della guerra! Una situazione che mai avremmo immaginato potesse ripetersi in un grande ‘Paese’ come l’Europa che, dalla metà del secolo breve, sembrava essersi attrezzata per vivere in pace, per ricostruire ciò che la prima e la seconda guerra mondiale avevano distrutto e, al tempo stesso, essersi preoccupata di non cancellare la memoria di certi orrori affinché l’umanità non fosse mai più tentata di ripeterli, educando alla pace, alla cooperazione tra i popoli, all’inclusione, al rispetto della Vita e della Terra. E invece, a distanza di poco più di settant’anni dalla seconda guerra mondiale e di molto meno da tante altre guerre vissute più o meno lontane dall’Occidente, il mondo ‘civilizzato’, industrializzato, evoluto, è ancora una volta alle prese con la guerra, con la follia, con l’esaltazione di chi vuole esercitare un potere su un popolo, sul mondo… Avvertiamo forte l’esigenza di manifestare tutta la nostra solidarietà tanto al popolo ucraino, barbaramente aggredito in un conflitto assurdo agli occhi del mondo intero, quanto a quella parte del popolo russo che oggi è costretto al silenzio o alla mistificazione dei fatti per evitare arresti e ritorsioni da parte delle autorità russe, e, nel rispetto della nostra mission culturale, in questa sede, riteniamo importante focalizzare l’attenzione sui rischi che corre l’immenso patrimonio culturale ucraino. Dalle università ai musei, alle chiese, ai monumenti diffusi, ai centri storici delle grandi città ucraine, i luoghi dell’arte, della cultura, della conoscenza e dunque della libertà, rischiano di crollare e polverizzarsi sotto la ferocia degli attacchi di una guerra ogni giorno più assurda e anacronistica. L’obiettivo sembra essere quello di eliminare un intero popolo, cancellandone al tempo stesso anche la storia. E così, alle strazianti immagini di vite spezzate, di intere famiglie in fuga, di bambini, anziani e ammalati in balìa di sirene, bombe a grappolo o delle c.d. dumb boms [1], incendi e colpi d’arma da fuoco, di corse disperate in ospedali o nei rifugi di fortuna, si associano le immagini dei crolli, dei bombardamenti di palazzi, di scuole, di chiese, di musei, di luoghi e simboli di una cultura pensante e produttiva di arte, di bellezza e, dunque, di pace. Sin dai primissimi attacchi, nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, sono stati distrutti il memoriale dell’Olocausto di Babyn Yar, il Museo di Storia Locale di Ivankiy, in cui erano custodite le opere della famosa pittrice naif Maria Prymachenko, l’Università e l’Accademia di Cultura di Kharkiv, il Museo di Arte Contemporanea Yermilov Centre, una delle istituzioni culturali più importanti della regione. Perché colpire i luoghi della cultura, della memoria e della conoscenza? Sembra l’ennesimo atroce disegno di un’epurazione culturale. Si sta colpendo il secondo Paese più grande d’Europa, un territorio ricco di storia e di beni dall’inestimabile valore storico-artistico, con ben sette siti iscritti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. I curatori dei musei ucraini lavorano senza sosta per tentare di proteggere, oltre alle loro vite, i tesori culturali del Paese. Monumenti unici nel loro genere, come la Cattedrale di Santa Sofia a Kiev, il centro storico di Leopoli (la Parigi dell’Est), la mitica scalinata Potemkin di Odessa e, nella stessa città, il Museo d’Arte Occidentale e Orientale (che conserva uno dei più celebri dipinti del Caravaggio, “la Cattura di Cristo”), rischiano di cadere sotto le bombe russe. Nei giorni scorsi è arrivato l’appello del Ministro della Cultura ucraino Oleksandr Tkachenko, che ha dichiarato che «i missili e gli aerei russi stanno deliberatamente distruggendo i centri storici delle grandi città» e quello del direttore del Museo Nazionale dell’Ucraina, che ha invocato l’attenzione della comunità internazionale anche sul patrimonio culturale. Il Museo della Libertà di Kiev, già a fine febbraio, si era adoperato per trasferire all’estero il proprio patrimonio, ma l’autorizzazione formale non è arrivata in tempo e gli addetti al museo sono stati costretti a spostare le sue collezioni in rifugi di fortuna. Stessa cosa hanno fatto al Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina (in 12 ore ha trasferito tutte le collezioni del Museo nei depositi). Sempre a Kiev, il Mystetskyi Arsenal National Art and Culture Museum Complex ha subito messo in atto il piano di massima sicurezza del museo mentre, a Odessa, il Museo di Belle Arti è stato circondato di filo spinato. A Leopoli si avvolgono sculture e dipinti in teli ignifughi, lana di vetro e un alluminio speciale prima d’inserirli nei sacchi e portarli in rifugi più o meno sicuri. Nel frattempo, il piccolo teatro liberty, Les Kurbas, si è trasformato in un centro di accoglienza per i profughi, con gli attori che fanno da volontari tra tanti altri portatori di aiuti e solidarietà. Da più parti si stanno attivando per mettere in salvo opere d’arte, archivi, libri, oggetti di design e arti applicate. L’organizzazione no profit Asortymentna kimnata è impegnata a cercare di portare fuori dal Paese tutto ciò che è possibile spostare, per metterlo in salvo dai bombardamenti, ma è un’operazione difficilissima. Non mancano le reazioni della comunità internazionale, degli intellettuali, degli artisti. Numerose figure di spicco del mondo dell’arte ucraino hanno sottoscritto un documento in cui, oltre a invocare sanzioni contro la Russia, chiedono con forza il divieto per gli artisti russi di partecipare a mostre e fiere internazionali. Tra i firmatari figurano Galyna Grygorenko, a capo dell’Agenzia statale dell’Ucraina per le arti e l’educazione artistica, Volodymyr Sheiko, primo direttore generale dell’Istituto Ucraina, esperto di diplomazia culturale, oltre a mercanti d‘arte, registi, direttori d’orchestra, musicisti e artisti. Una presa di posizione molto forte e decisa che invoca l’annullamento di tutti i progetti che coinvolgono il governo russo e la sospensione delle attività dei centri culturali russi presenti in sedi internazionali. Chiede inoltre che i candidati russi siano esclusi dalle competizioni internazionali, citando come esempio la decisione dell’European Broadcasting Union e tanto altro. Nel documento viene poi espresso apprezzamento per alcuni influenti rappresentanti della cultura russi che hanno apertamente condannato l’aggressione russa e l’azione militare contro l’Ucraina. Ma ciò che appare ancora più importante è il coraggiosissimo dissenso espresso all’interno dei confini russi, a cominciare dal direttore del Teatro Bolshoi di Mosca, Tugan Sokhiev, il quale, con un lungo post su facebook, si è dimesso tanto dalla carica di Direttore del massimo Teatro sovietico, quanto dalla carica di Direttore musicale dell’Orchestre National du Capitole de Toulouse: «Non ho mai sostenuto e sarò sempre contro qualsiasi conflitto […] ho assistito a qualcosa che non avrei mai visto in vita mia. In Europa oggi sono costretto a fare una scelta. Mi viene chiesto di scegliere un artista piuttosto che un altro. Non riesco a capire come i miei colleghi, artisti, attori, cantanti, ballerini, registi, vengano minacciati, trattati irrispettosamente e vittime della cosiddetta cancel culture. A noi musicisti viene data una straordinaria possibilità: la nostra missione è di mantenere il genere umano gentile e rispettoso verso l’altro, suonando e interpretando quei grandi compositori. Noi musicisti siamo lì per ricordare attraverso la musica di Shostakovich gli orrori della guerra. Noi musicisti siamo gli ambasciatori della pace. Invece di usare noi e la nostra musica per unire nazioni e popoli, ci stanno dividendo e ostracizzando […] essendo costretto ad affrontare l’impossibile opzione di scegliere tra i miei amati musicisti russi e quelli francesi, ho deciso di dimettermi». Molti altri rappresentanti del mondo della cultura russo, intellettuali, uomini e donne del mondo dell’arte e dello spettacolo hanno fatto sentire la loro voce, in particolare, con una lettera aperta indirizzata a Putin: «Noi, artisti, curatori, architetti, critici ed esperti dell’arte, art manager – rappresentanti della cultura e dell’arte della Federazione Russa – abbiamo prodotto e firmato questa lettera aperta, che consideriamo un’azione insufficiente ma necessaria per la pace tra Russia e Ucraina […] Chiediamo che questa guerra con l’Ucraina, Stato sovrano e indipendente, che va avanti dal 2014, venga fermata e che si comincino dei negoziati sulla base del rispetto e dell’equità […] è una tragedia terribile, sia per gli ucraini che per i russi. È causa di enormi perdite di vite umane, mette in pericolo l’economia e la sicurezza, e conduce il nostro paese in un totale isolamento internazionale». Il testo termina con un secco «No alla guerra!». Anche Elena Kovalskay, direttrice del Meyerhold Center, il teatro statale di Mosca, sempre con un messaggio sui social, ha annunciato le sue dimissioni, adducendo motivazioni inequivocabili: «È impossibile lavorare per un assassino e prendere lo stipendio da lui». Altre lettere aperte sono seguite, a firma di scienziati [2], giornalisti, infermieri e medici, ingegneri e insegnanti, oltre a importanti rinunce alla partecipazione a eventi culturali internazionali, come quelle degli artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov e del curatore Raimundas Malaauskas, i quali hanno rinunciato a partecipare alla 59/a Biennale dell’Arte a Venezia, edizione 2022. È stato un altro atto di protesta contro la guerra scatenata da Mosca, con cui ribadire che «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili, quando i cittadini dell’Ucraina si nascondono nei rifugi e quando chi protesta in Russia viene ridotto al silenzio. Poiché sono nata in Russia, non presenterò il mio lavoro al Padiglione della Russia alla Biennale di Venezia». Questo ha scritto su Instagram Alexandra Sukhareva, artista di fama internazionale. Anche la posizione di Patty Gerstenblith - docente di diritto alla DePaul University di Chicago, dove è anche Direttrice del Center for Art, Museum & Cultural Heritage Law, oltre che fondatrice e Presidente del Lawyers Committee for Cultural Heritage Preservation -, era stata molto chiara quando aveva detto: «Le istituzioni artistiche di tutto il mondo dovrebbero annullare qualsiasi scambio culturale con la Russia […] Non credo che questo sia il momento di collaborazioni. Una cosa che i musei occidentali potrebbero non essere contenti di fare, ma io penso che debbano prendere una posizione». L’Unesco, che prevede una sessione collegiale per il prossimo 15 marzo per quantificare e analizzare l’impatto dei danni subiti, dall’inizio del conflitto, è in contatto con i funzionari dei musei ucraini per discutere e monitorare le difficoltà del momento, le stesse che da anni vivono i direttori di istituzioni culturali in altri luoghi di guerra come Iraq, Siria e Afghanistan, tutti impegnati a proteggere, come possono, i tesori del paese dalla furia distruttrice dei bombardamenti. L’ICOM ha condannato ufficialmente la violazione dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina da parte delle forze militari russe, manifestando preoccupazione per i rischi a cui sono esposti i professionisti dei musei e l’intero patrimonio culturale ucraino. Ma c’è un altro rischio concreto: quello del contrabbando di materiale culturale che potrebbe uscire dall’Ucraina senza la dovuta autorizzazione e protezione. Lo aveva anticipato la Gerstenblith che aveva avvertito anche su questo: «il mercato dell'arte occidentale dovrebbe anche prepararsi a intervenire contro l’eventuale commercio illegale di opere d'arte o di reperti archeologici ucraini saccheggiati durante l’invasione». Per tale ragione l’ICOM ha allertato la società civile, invitandola a collaborare, per quanto possibile, con i Musei locali e, ribadendo i principi della Convenzione UNESCO del 1970, ha sollecitato tutti i governi ad adottare ogni misura necessaria a impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali nonché ricordando quelli della Convenzione UNIDROIT del 1995, concernenti gli oggetti rubati o esportati illegalmente. L’esperienza della seconda guerra mondiale, che ebbe un impatto fortemente distruttivo anche sul patrimonio culturale dei Paesi coinvolti nel conflitto, evidenziò l’inefficacia degli strumenti normativi allora esistenti. Per tale ragione, la comunità internazionale approvò la Convenzione dell’Aja, firmata il 14 maggio del 1954, che, sin dai primi articoli, sottolinea il dovere delle forze armate di ogni Paese di diffondere la cultura del rispetto del patrimonio culturale (art. 7). La ratio ispiratrice della Convenzione - che ancora oggi costituisce la fonte normativa primaria per la tutela del patrimonio culturale in tempo di guerra -, supera la tradizionale impostazione statalistica della protezione dei beni culturali per affermare il principio di un “patrimonio comune dell’umanità” che evoca una comunanza di interessi tra lo Stato in cui si trova il bene e lo Stato aggressore. «L’idea, rafforzata dalla Convenzione dell’Aja, è che il patrimonio culturale sia espressione di un “superiore interesse dell’intera umanità” e che nel suo statuto il profilo della proprietà sia recessivo rispetto a quello della funzionalizzazione, per cui i beni culturali si configurano come beni destinati alla fruizione collettiva piuttosto che come beni di proprietà pubblica o privata e questa caratterizzazione rappresenta il “formante” della normativa di riferimento»[3]. Il principio fondamentale della Convenzione dell’Aja è fondato sulla consapevolezza che la strategia del soggetto aggressore punti alla distruzione dei beni culturali della comunità aggredita con uno scopo ben preciso: annullare l’identità e la memoria storica del nemico, di cui il patrimonio culturale costituisce viva testimonianza. Un fine criminale che, nonostante le indicazioni normative della Convenzione, ampiamente disattese negli ultimi anni, è stato perseguito in più occasioni, in quella che potremmo definire una vera e propria mattanza di tesori mondiali dell’arte. Pensiamo alle guerre in Iugoslavia, in Iraq, in Siria, in Afghanistan, che hanno distrutto e saccheggiato monumenti, moschee, antiche tombe, chiese, musei e, con essi, i luoghi simbolo della conservazione e della riproduzione della cultura, le scuole e le università. E pensare che il percorso normativo della difesa del patrimonio culturale cominciò ben prima della Convenzione dell’Aja: un primo processo di codificazione della normativa internazionale per tutelare il patrimonio culturale in caso di conflitto armato, cominciò già tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1899 e nel 1907 sempre all’Aja, si tennero due Conferenze internazionali per la pace. Nella prima si definì il principio secondo il quale un conflitto tra stati non avrebbe dovuto coinvolgere civili e beni non direttamente interessati [4]. Nella seconda si ragionò sull’importanza di adottare misure preventive per tutelare «gli edifici consacrati al culto, alle arti, alle scienze, alla beneficenza, i monumenti stoici, gli ospedali e i luoghi ove si trovavano riuniti gli ammalati e i feriti, a condizione che fossero adoperati per scopi militari»[5]. La prima Guerra mondiale rivelò la piena inadeguatezza di questi primi strumenti normativi. Nel 1935, il Patto Roerich estese il concetto della tutela dal tempo di guerra al tempo di pace e, per la prima volta, uno strumento normativo internazionale veniva interamente dedicato alla «Protezione delle Istituzioni artistiche e scientifiche e dei monumenti storici». Purtroppo quel Patto rimase confinato al solo continente americano, dove ancora oggi è in vigore [6]. Nel 1941 fu emesso il Codice Militare Penale di Guerra contenente un capitolo dedicato alle violazioni del diritto umanitario, unico per quei tempi, ma ancora poco efficace [7]. Fu solo nel 1954 che s’intervenne, per la prima volta, su due livelli di protezione dei beni culturali rimasti poi alla base dei successivi protocolli internazionali: da un lato il principio della salvaguardia, dall’altro, quello del rispetto. L’UNESCO ne curò la stesura e la Convenzione dell’Aja per la tutela dei beni culturali in caso di conflitto armato, esclusivamente dedicata alla protezione del patrimonio culturale, fu il primo strumento normativo ad usare l’espressione “beni culturali”. Essa fu dotata di due protocolli, nel primo dei quali fu anticipata la questione dell’illecito trasferimento dei beni mobili: accanto al divieto sancito dalla Convenzione «di furto, di saccheggio o di sottrazione di beni culturali sotto qualsiasi forma», lo Stato occupante è obbligato a impedire l’esportazione dei beni culturali dal territorio occupato e, in caso di violazione di questo obbligo, lo Stato, nel cui territorio si trovano i beni importati, ha l’obbligo di sequestrarli per restituirli alla fine delle ostilità. Il secondo protocollo fu adottato ufficialmente nel 1999, con una nuova conferenza diplomatica indetta a seguito dei tragici eventi bellici che sconvolsero Iran, Iraq e la ex Jugoslavia. Esso introduceva un nuovo regime, detto di protezione rafforzata (enhanced protection), con cui si creò un elenco di beni culturali della massima importanza, selezionati sulla base di requisiti istruiti dal Bureau dell’UNESCO [8]. Seguì una copiosa giurisprudenza del Tribunale dell’Aja per precisare i crimini commessi a danno dei beni culturali, in particolare, quelli commessi nell’ex Yugoslavia. Le sentenze del tribunale sancirono l’applicabilità delle norme sia ai conflitti internazionali che a quelli interni e l’applicabilità delle stesse in materia di responsabilità penale individuale per gravi attacchi a beni culturali e artistici, spesso in connessione con quelli religiosi. Tale giurisprudenza presenta una significativa evoluzione sotto il profilo del diritto penale sostanziale, prendendo in considerazione in primis i crimini di guerra ed estendendo poi alcune gravi violazioni a crimini contro l’umanità, quando i beni culturali sono anche simboli religiosi, sino ad arrivare a delineare il crimine di genocidio nel caso in cui «gli attacchi ai beni culturali artistici e religiosi sono realizzati con l’intendimento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale»[9]. Come non ricordare gli attacchi alla Biblioteca di Sarajevo o al ponte di Mostar nei conflitti dell’ultimo decennio del secolo scorso nei Balcani? Attacchi di una ferocità inaudita che sono stati considerati oggetto di pulizia etnica intesa come precisa volontà di distruggere tutto quanto possa costituire l’identità più profonda di un popolo [10]. Una situazione simile si verificò in Kossovo, nel 1999, quando si colpì la cultura e l’identità di un’intera comunità, distruggendo circa 200 moschee 90 monasteri ortodossi. Dal 1° luglio 2002 è in vigore lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale. All’art. 8 così recita: «l’attacco diretto intenzionalmente contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, a monumenti storici, a ospedali […] è un crimine di guerra, purché tali edifici non siano utilizzati per fini militari». L’Italia, pur avendo ratificato lo Statuto, ha impiegato 10 anni per approvare una legge di adeguamento, ma senza risolvere il problema della doppia incriminazione, non avendo introdotto nel nostro ordinamento un catalogo di delitti speculari a quello per cui ha la giurisdizione della Corte. Un solo caso specifico è stato inserito nella legge delega di approvazione del nuovo codice penale militare delle missioni all’estero: ad oggi le forze armate italiane partecipano con circa 5.000 uomini a 33 missioni che si svolgono in 25 Paesi del mondo. La formazione dei militari italiani viene curata anche in materia di protezione di beni culturali: tra i loro compiti vi sono anche quelli di training e di mentoring e i programmi formativi includono spesso materie dedicate alla normativa del settore [11]. In generale, nonostante lo Stato italiano abbia svolto un ruolo di grande rilevanza nei negoziati che portarono all’approvazione della Convenzione dell’Aja, prima, e del Secondo Protocollo, poi, garantendone l’esecuzioni con le leggi di ratifica del 1958 e del 2009, emergono vistose inadempienze in materia di acquisizione di misure appropriate per la tutela del patrimonio culturale durante i conflitti bellici [12]. Nel 2003, dopo l’ennesimo atto criminale con cui i Talebani distrussero i Buddha di Bamiyan, l’UNESCO redasse la Dichiarazione sulla Distruzione Intenzionale del Patrimonio Culturale con cui si ribadiva che «il patrimonio culturale è una componente importante dell’identità culturale delle comunità, gruppi ed individui, e della coesione sociale, dal momento che la sua distruzione intenzionale può avere delle conseguenze che possono essere pregiudizievoli sulla dignità umana e sui diritti dell’uomo»[13]. L’impegno dell’Europa a tutelare la pace tra i popoli e la tutela delle tante indentità e delle loro rappresentazioni culturali non si è mai interrotto. Solo una decina di anni fa si è concluso il progetto CRIC, Identity and Conflict. Cultural Heritage and the re-construction od identities after conflict, interamente finanziato dall’Unione Europea. Dal 2007 al 2012, avvalendosi di «nuovi metodi per ricostruire il patrimonio culturale nei Paesi dilaniati da un conflitto [e che] potrebbero aiutare a riconciliare le divergenze e accelerare il processo di guarigione delle società», i partecipanti al progetto hanno raccolto alcuni significativi risultati. Nato con l’intento di ricostruire edifici storici, siti archeologici, musei, teatri, monumenti e centri storici come metodo per rafforzare le comunità e le identità, il progetto CRIC ha usato la ricostruzione come riqualificazione sociale e ambientale, per sviluppare politiche e pratiche inclusive di fattori sociali e psicologici. Ogni progetto di ricostruzione è stato adattato al caso specifico, avvalendosi di un lavoro fatto sul campo, di osservazione e di analisi approfondite che hanno studiato le «biografie dei luoghi», i ricordi pubblici, le emozioni, le rivendicazioni e i molteplici significati tra spazi e contesti [14]. Uno degli obiettivi finali era quello di realizzare attività che coinvolgessero le persone nei loro mondi, aiutandole a fare i conti con il passato e a guarire almeno alcune delle ferite procurate dal conflitto. La distruzione del patrimonio culturale è la distruzione dei valori e della memoria storica, dello strumento di conoscenza, di dialogo, di partecipazione e di inclusione, e tocca inevitabilmente le coscienze dell’intera umanità. Il patrimonio culturale di un popolo coincide con la sua identità più profonda, distruggerlo significa cancellare per sempre l’identità di un’intera comunità. È ciò che Putin sta facendo, violando tutti i diritti umani che il mondo ha codificato dalla DUDU (Dichiarazione universale dei Diritti Umani) adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite, alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 ed oltre. Il mondo ‘civile’ non può stare a guardare, non può subire inerme un atto criminale così assurdo e fuori di ogni logica di civile convivenza. Il patrimonio culturale di una comunità, che va ben oltre gli ampi confini dell’Ucraina, deve essere salvaguardato e, con esso, va protetta l’identità fisica e morale, tangibile e intangibile di un popolo. È per questo che diciamo con forza NO ALLA GUERRA e che ci rendiamo disponibili, per tutto ciò che potremo fare, per sostenere la conservazione, la protezione e la ricostruzione di un immane patrimonio culturale oggi seriamente in pericolo! [Photo source: https://www.open.online/2022/03/06/guerra-ucraina-opere-d-arte-salvate-foto/] 1. Dette anche ‘bombe stupide’ perché sono ordigni a caduta libera, che non hanno un obiettivo preciso e, dunque, ancor più pericolose per i civili. 2. Alleghiamo qui la Lettera aperta di studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi contro la guerra con l’Ucraina, pubblicata on-line su “Troickij variant”, il 24 febbraio scorso. 3. M. Brocca, Il diritto dei beni culturali in tempo di guerra: lo stato dell'arte, in E. Franchi (a cura di), Il dono dei padri". Il patrimonio culturale nelle aree di crisi, Predella, 6, 2012, p. 1. 4. M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali. Diritto internazionale, diritto comunitario e diritto interno, Giuffré 2007, p. 84. 5. Art. 27 della Convenzione dell’Aja, 1907. Sull’evoluzione normativa in mate-ria di protezione dei beni culturali si veda ancora M. Brocca, Il diritto dei beni culturali in tempo di guerra: lo stato dell'arte, cit. 6. D. Oro, La tutela internazionale dei beni culturali: dall’esperienza delle guer-re totali alla prospettiva dei caschi blu della cultura. Tesi di laurea magistrale in Scienze internazionali, Università degli studi di Torino 29/11/2018, citato in F. Este, La distruzione del patrimonio culturale: introduzione al tema, https://www.kermes-restauro.it/la-distruzione-del-patrimonio-culturale-introduzione-al-tema/; R. Madia, La tutela del patrimonio culturale in tempo di pace e nei conflitti armati, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, 2018, pp. 78-79, https://iris.unirc.it/retrieve/handle/20.500.12318/64146/57218/Maida_Roberta.pdf 7. Al capo III del titolo IV, «degli atti illeciti di guerra» reca una disciplina sanzionatoria che, in particolare all’art. 187, prevede una reclusione non inferiore a quindici anni per chiunque, in paese nemico, senza essere costretto dalla necessità delle operazioni militari con qualsiasi mezzo distrugge e provoca grave danneggiamento a monumenti storici, opere d’arte o scientifiche, stabilimenti destinati ai culti, all’istruzione, alle arti e alle scienze (F. Fedi, La difesa e la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, “Informazioni della Difesa”, 5/2014, pp. 6-17). 8. A. De Masi, L’importanza del Secondo Protocollo dell’Aja, La Tutela del Patrimonio Culturale, 27 marzo 2021, https://latpc.altervista.org/limportanza-del-secondo-protocollo-della-convenzione-dellaja/ 9. Ibidem. 10. L’intervento delle Nazioni Unite in Iugoslavia, auspicato da più parti, dovette prefiggersi molti scopi: primo fra tutti quello di porre fine alla guerra civile, sal-vaguardando il rispetto dei diritti umani, mentre l’UNESCO intervenne a garan-tire la sopravvivenza del patrimonio artistico mondiale. La minaccia, più volte effettuata di distruggere il patrimonio artistico del Paese (in pericolo vi erano le sorti dell’antica Ragusa e di altre splendide località) suscitò ira e sdegno in molti governanti e nell’opinione pubblica mondiale. (M. R. Saulle, Relazioni Interna-zionali e Diritti fondamentali 1981-2005. Cronache e opinioni, Roma, Aracne editrice, 2007). 11. U. LEANZA, Conflitti simmetrici e conflitti asimmetrici e protezione dei beni culturali, in Benvenuti P., Sapienza R. (a cura di), La tutela internazionale dei beni culturali nei conflitti armati, 2007, p.39, Patrimonio a rischio; 12. Sull’argomento si veda ancora quanto pubblicato da Marco Brocca in Il diritto dei beni culturali in tempo di guerra: lo stato dell'arte, cit. e Id., La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, in «Aedon-Rvista di arti e diritto on line», 3, 2001, pp. 1-16, www.aedon.mulino.it/archivio/2001/3/brocca.htm. 13. UNESCO, Declaration concerning the Intentional Destruction of Cultural Heritage, 2003, http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=17718&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html. Un approfondimento della vicenda giuridica relative alla distruzione dei Buddha di Bamyan e della successiva Dichiarazione Unesco si veda D. Napoletano, La protezione del patrimonio culturale dell’umanità: la distruzione intenzionale dei beni culturali come crimine internazionale dell’individuo, in A. Gentili, La salvaguardia dei beni culturali nel diritto internazionale, atti del Convegno Dodicesima giornata gentiliana (San Ginesio, 22-23 settembre 2006), Mi-lano 2008, pp. 545-579. 14. https://cordis.europa.eu/project/id/217411/reporting Comments are closed.
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