di Gaetano Cantone PRIMA PARTE Premessa I DALL’EUROPEA FIRMITAS ALL’IMAGO URBIS AMERICANA.* II SEGNI DELLA CIVILTÀ URBANA NELL’ICONOGRAFIA DEL NOVECENTO PREMESSA La modernità si è presentata all’immaginario di quegli uomini a cavallo tra due secoli – che apparivano, in ogni caso, figli di un Ottocento irrigidito – come risolutiva condizione d’esistenza di fazioni contrapposte ed immerse nella difesa o della tradizione o della nuova era disposta al cambiamento pioneristico. La vivezza di un secolo come il XIX, guerreggiante sempre ma pur innovativo, non solo si connota per il riassetto della divisione delle classi sociali su scala planetaria per quanto riguarda almeno l’Occidente, ma si fa carico anche della sistemazione dell’universo conosciuto con piglio burocratico. Mettere assieme ciò che permane con ciò che s’intravede appena, dal futuro, è appartenuto in maniera determinata alla ridefinizione dell’umano che ha attraversato buona parte dell’Ottocento. La città – influente nella crescita territoriale e parametro essa stessa della produttività – ha rappresentato l’assetto definitivo per tutte le storie antropologiche ed ha segnato, al contempo, il campo d’azione delle attività antropiche del pianeta ancora oggi vigenti. La città del lavoro industriale abbisognava di strutture e d’infrastrutture, di gerarchie individuabili nello skyline architettonico del consesso urbano. Essa si è sobbarcata il peso d’essere la città dei molti, ha racchiuso – o almeno ha tentato – le contraddizioni tra diversi modelli di sviluppo, ha vissuto di conflitti e di progetti ed ha provato a rendere dialettica la permanenza del collettivo provando la via dell’interconnessione culturale. La città della finanziarizzazione dell’economia, grazie alla destrutturazione dei processi comunicativi, di cui ha avuto fin qui bisogno, ha reso funzionali alla propria produttività tutti i livelli connettivi e ha posto il sec. XXI nelle condizioni di blandire lo stato delle individualità solitarie che oggi abitano le realtà urbane; le città dei solitari stanno diventando metropoli adrenaliniche zeppe d’informazioni, spesso non cercate. La comprensione del mito della modernità verte sulla possibilità di riprendere gli strumenti dell’indagine sulla formazione dei nostri immaginari, collettivi ed individuali, convocando nell’analisi la maggior parte dei mezzi d’efficienza comunicativa: il complesso universo di segni che interagiscono e delineano orizzonti simbolici delle differenti generazioni dei “moderni”. I - DALL'EUROPA FIRMITAS ALL'IMAGO URBIS AMERICANA. Qualche anno prima l’emigrante Pietro F. aveva spedito una cartolina illustrata con uno svettante naviglio ed impostata a bordo del piroscafo italiano “Umbria”[1], che lo conduceva in America, firmandola con un laconico e frugale saluto. Forse, sovraccarico di tesa solitudine in procinto del gran viaggio verso le terre d’oltreoceano, aveva preferito non comunicare alcunché, se non la propria presenza a bordo di quella nave. ![]() Si può cogliere nel disegno canonico (fig. 1), in prospettiva composta in dissimetria, lo sbuffo dei fumaioli, le bandiere patriottiche al vento mentre i colori del tramonto preludono alle partenze, quando inizia a confondersi alla vista la lontana sagoma del porto, mentre le vele s’apprestano al molo ed il faro ingrigisce alla fine del giorno, nell’ora “che volge il disio / ai navicanti e’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio”. Vi sono in questa immagine tutte le componenti occorrenti per una “narrazione” nostalgica ma epifanica dell’ignoto: solo che questa volta la distanza dalla plaga straniera deve prendersi da un confine o da una nuova fortificazione che non è più la rassicurante sagoma delle città frequentate o dei borghi noti: la demarcazione è la ‘moderna’, fluttuante, mutante ed ameboide linea del mare. Il futuro delle città porterà ancora con sé – nel formando nuovo immaginario collettivo proprio negli anni in cui i diversi regimi dimostrano un’urgenza plasmatrice della realtà, compresa quella urbana – la suggestiva firmitas della città europea? Quando la Cociergerie (fig. 2) inanella le sue torri di César e d’Argent sul composito blocco del ponte che ne delimita la storica imponenza? [2] Kasimir Malevic scriveva, memore dell’impetuoso ed urticante lessico marinettiano, nel manifesto suprematista del 1924: «La vita deve essere liberata dal fracasso del passato, dall’eclettismo parassitario, perchè possa essere riportata al suo svolgimento normale. La vittoria dell’oggi sulle dilette consuetudini presuppone il rifiuto dell’ieri, lo sgombero della coscienza...»[3]. La cultura e la città antiche sembrano pesare sul cuore allertato ed animoso dell’avanguardia. ![]() Auspicando la libertà del progetto totalizzante – nel solco di una posizione baudeleriana non a caso rimarcata in neretto – Antonio Sant’Elia, nel volantino “L’architettura futurista. Manifesto”, datato 11 luglio 1914, aveva sostenuto che «La formidabile antitesi tra il mondo moderno e quello antico è determinata da tutto quello che prima non c’era. Nella nostra vita sono entrati elementi di cui gli antichi non hanno neppure sospettata la possibilità... Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchita la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari».[4] In qualche maniera la supericonica civiltà ‘antica’ sembrava essere il grande, ed unico, limite per l’affermazione del “nuovo” che diverrà l’incubo delle avanguardie novecentesche. Le tensioni contenute nelle dichiarazioni programmatiche dei creativi portano, nella prassi reale, a compimento molte delle progettazioni “borghesi” afferenti ad un universo semantico (fig. 3-4) che realizza, sul proprio corpo di presunta derivazione utopica, la dimensione concreta, fattuale, del riassetto capitalistico della produttività, componendo di nuovo intere aree delle città, definendo in avanti i limiti urbani e costruendo già dal “lungo” Ottocento, quelle stazioni[5] ed i grandi porti[6] evocati dai militanti delle avanguardie. ![]() La città si espande e si riorganizza, con il barone Haussmann, ad esempio, per Parigi; la sua facies riverbera nuovi compiti per nuove tecnologie: la sua forma diviene elemento tipologico per una rappresentazione pronta all’uso d’un contesto di chiaro ed inequivocabile impatto, come nell’illustrazione (fig. 5) – ispirata agli Stati Uniti d’America – di Sergio Tofano [Sto][7] in cui la silhouette della teoria di automobili pone in evidenza la relazione tra la centralità di una sorta di “monumento” di forte connotazione classicheggiante (eclettico) ed il “tessuto” urbano composto da alti edifici emisimmetricamente disposti come quinte di una scena urbana ordinata ed efficiente. Già era divenuto chiaro che la città è il ‘luogo’ per eccellenza della vita associata, in cui le conflittualità deflagrano: si pensi alle volenterose illustrazioni di Gustave Doré sugli slums della Londra vittoriana. Sono immagini in cui, lasciando ampio passo al pauperismo, non può avere la meglio la lucidità interpretativa dickensiana della seconda civilizzazione industriale. Le fasce sociali che dalle campagne hanno tentato l’inurbamento, coatto, restano nella classe del disagiato e disperato proletariato urbano; il ceto piccolo-borghese e quello medio provano ad inserire il proprio flusso esistenziale entro i confini di un’innovata ri-composizione tecnica e tecnologica della città moderna. Una manchette promozionale della ditta ‘Ercole Marelli & C.”[8] invita “Industriali – Agricoltori Municipi Enti governativi Imprenditori” ad “emanciparsi” persino dal carbone, per provvedersi ‘d’urgenza’ di macchine elettriche, indossando al contempo il paludamento-mito del “nuovo” posto a guardiano del futuro dai militanti dei diversi movimenti letterari ed artistici ma soprattutto delle tenzoni futuriste di un Boccioni o di un Balla che nel 1911 dedica un’opera alla lampada ad arco. Si dovrà, comunque, indagare la vocazione-tentazione mistica della luce nuova dentro l’uomo nuovo che insorge dal secolo nuovo. ![]() Altre immagini ed altre cartoline avrebbero narrato – per arricchire l’immaginario degli uomini del XX secolo – di una civilizzazione urbana che lo spazio sidereo delle acque atlantiche aveva reso ancor più “lontane” e per questo mitizzabili icone d’un’imago urbis difficile ancora a “dirsi” in lingua europea. La ‘veduta di città’ avrebbe conservato nelle proprie tessiture semantiche la virtuosa ed enunciativa valorizzazione dell’uomo d’occidente, possente fabbriciere d’una costante modellizzazione plastica del mondo: i grattacieli, ad esempio, avrebbero delineato per sempre – a pochi anni dalla fascinazione planetaria prodotta dalla Parigi dei boulevards haussmanniens, del Trocadero o della Tour Eiffel – un altro skyline d’inquieta fattura. Nei segni accumulati dai mezzi di comunicazione di massa, le linee verticali – che le foto o le illustrazioni impegnano nella costituzione dell’inquadratura – determineranno le coordinate principali per visualizzare il mondo, reale o ipotizzato, di quella che allora, agli albori del Novecento, poteva definirsi la “modernità“. Già Baudelaire aveva provato a configurarne l’identità declinando un’intrigante aggettivazione per l’elemento costitutivo individuato come «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile»[9]. I bagliori del moderno universo conosciuto, sostanziato dall’inesausta mutazione e dall’incorrotta tensione finalistica nonché salvifica delle sorti dell’uomo nuovo, imperversano oramai e connotano prepotentemente i motivi identitari del Novecento fin dentro l’epopea dei regimi totalitari; ancora una cartolina sancisce la ratificata immagine della città nuova per eccellenza di nome e di fatto, New York. La veduta (fig. 7) dell’Union Square[10] con l’ordinato e geometrizzato parco e gli edifici anch’essi colorized, com’era in uso a partire da una foto in bianco e nero, proclamano le virtù d’un lindore perennemente operoso e d’una laboriosità tesa all’efficienza satolla. ![]() Non sapremo mai se un ignoto disegnatore statunitense di cartoline abbia letto questo passo di Goethe «In un paese in cui durante il giorno si gode, ma specialmente durante la sera si prova la gioia di vivere, è di singolare importanza il cader della notte. Cessa il lavoro; la gente ritorna dalla passeggiata... la giornata è finita... Qui, invece, come subentra la notte... il giorno è bell’e finito... Di notte i canti e i rumori aumentano ancora...»[11]; in una straordinaria veduta notturna (fig. 8), la cui didascalia recita “The Heart of the city, Detroit, Mich.”[12], la città appare nei suoi volumi chiaramente modulata dalle finestre illuminate, tutte, come ad allestire una suntuosa messa in scena per il viaggiatore; le bandiere svettano dai grattacieli mentre un banco di nuvole non offusca del tutto la nettezza geometrica della luna. In strada il tram passa ed è tutto illuminato, le automobili con i loro fari immettono baluginii fendendo il selciato nella notte americana, quando sulla torre civica gli orologi segnano quasi le ventuno... Qualche anno più tardi un architetto, con residenza a Taliesin West, disegnerà una veduta notturna a tempera ed inchiostro del suo progetto per la Lenkurt Electric Company Building (California): mille e mille luci multicolori come puntini irriducibili all’oblio delineano l’impianto complessivo, cupole piramidali con la loro luminosità ‘elettrica’ sanciscono la tessitura dei moduli costruttivi e bagliori bluastri determinano la superficie d’acqua di un bacino di confine. È il 1955 e Frank Lloyd Wright pare che abbia conservato ancora intatta la stupefazione degli anni della sua adolescenza, quando il suono di un clacson s’allineava organicamente alle meraviglie della modernità e lo sguardo s’allungava gioco forza sul futuro, poiché s’aveva un’idea di futuro. L’immagine di città che ha affascinato emigranti, viaggiatori e peregrinanti ha la sua dote principale nel reiterare l’unità tra tecnica e magniloquenza: non più templi, cattedrali e vie, non più castelli e boulevards, ma opifici, capannoni prima e poi architetture dai venti piani e più, gettate allo sguardo di chi osserva la cartolina[13] giunta da New York (fig. 9), con masse imponenti di muratura la cui solidità sembra assomigliare alla perennità introducendola nel ventesimo secolo. II - SEGNI DELLA CIVILTA' URBANA NELL'ICONOGRAFIA DEL NOVECENTO. LA METANARRAZIONE IMPOSSIBILE DELLA CITTA' Il cineoperatore Michajl ha ripreso (figg, 10a e 10b), durante il frenetico trascorrere di giorni operosi e con puntiglio professionale, le strade, la folla, i volti e le fumiganti ciminiere, ha filmato l’alto ed il basso delle officine, le pulegge, gli ingranaggi ed ogni arcareccio produttivo delle nuove fabbriche della nuova Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche[14]. Su rigorosa indicazione registica[15], non ha dimenticato i sorrisi e gli occhi, i corpi che lavorano, che corrono o camminano; ha saltabeccato sui ponteggi, ha piazzato la cinepresa in cima agli edifici, s’è inerpicato sulla ritta ed asperrima schiena d’una ciminiera, ha montato il cavalletto su di una automobile cabriolet – con targa numero 35 – ed ha così composto le inquadrature delle strade di una città che si presenta ai nostri occhi “veloce” e confortata da un profluvio di dissolvenze incrociate, in un composito montaggio che appare come abbacinato dalle caleidoscopiche prove sperimentali delle benemerite pattuglie dell’avanguardia artistica[16]. Al contempo, è intriso di una ideologizzazione dell’universo noto, teso all’obiettivo – finalisticamente determinato – di un futuro di uguaglianza emancipante. Alla fine degli anni tenta del Novecento, sono in corso d’applicazione i Piani quinquennali[17] (la prima Pjatiletka è del 1928) che configurano, ipoteticamente all’orizzonte, una società sovietizzata in cui le ragioni della collettivizzazione prevalgono, in rude maniera pragmatica sebbene intese nel solco dell’equità sociale, non solo sulle proprietà private ma anche sulle istanze dei singoli. ![]() Nel film di Dziga Vertov L’uomo con la macchina da presa l’operatore che riprende è a sua volta ripreso, nel “suo vagabondare”[18], in una ridda di rimandi metalinguistici tra la “realtà” da invenire, quasi da imbrigliare nel gioco, e la narrazione possibile del progetto di società. La metafora del film si connota, infatti, come un peana dedicatorio dei tempi moderni ma anche della concretizzata e semplice esplorazione attuata da un osservatore divenuto, per così dire, “pellegrino in città”. Si perfeziona il disvelamento delle “icone” individuandole proprio nel loro articolato fluire, una dentro l’altra, come basilari componenti della vita urbana stessa: ne sono in qualche modo la definizione. Il film non raccoglie la sfida sociale e politica delle classi subalterne tese alla propria emancipazione: infatti, non v’è significativa traccia critica della Russia prerivoluzionaria, nemmeno sotto il mascheramento ironico delle scene di strade urbane cui ci ha abituati la pittura di Grosz[19] e dei suoi sodali della Neue Sachlichkeit[20]. La città, divenuta moderna, è stata resa creta da esperimento[21] (fig. 11), percepita e definita come in mutazione perenne, dominata dalla velocità e dall’instabile valore storico del tempo che scandisce la vita degli altiforni e degli individui, delle rotaie e delle folle, in un turbinio attivistico che, nell’ottimismo coatto verso le progressive sorti, nasconde l’alienata vicenda del secolo “veloce” e breve quale è stato il Novecento. ![]() L’idea di città moderna recava però con sé la vocazione al futuro: dai lombi stanchi di un secolo conflittualmente attivo come l’Ottocento si faceva strada il prometeico impulso al nuovo, ad opera di nuovi fabbricieri già tesi alla manipolazione globale della nuova realtà. È appena comparsa la luminescenza degli abbrivi futuristi, inquisitori solerti del passato, che già s’insinua nell’immaginario occidentale quel necessario lindore operoso di chi prevede il futuro nella solida geometria delle opere utili alla vita associata. Il futuro, in qualche modo per una miscela innovata di profitto e d’idealità, c’è già. In un’inserzione pubblicitaria del 1918 (fig. 12), della Società Nazionale delle Officine di Savigliano[22], il riquadro dell’illustrazione è corroborato dal taglio in diagonale imposto dall’imponente arcata d’un ponte metallico ancorato alla roccia e che prosegue oltre l’inquadratura; un lungo gasdotto segue i crinali delle colline e dei monti, lungo un fiume che s’intravede placidamente scorrere nella valle sottostante; ancora attracchi e ponti delineano un inaspettato paesaggio industriale con costruzioni che delimitano gli argini mentre un escavatore draga le acque. In alto, nel cielo azzurro ed ingombro di nuvole bianche e rosee, un velivolo dalle ali tricolori sfreccia consapevole d’essere, in una splendida giornata di sole, l’avvenire imbandito per il XX secolo, mentre la Grande Guerra è alla fine dei suoi orrori e parte del paesaggio agricolo principia a divenire periferia urbana. ![]() L’irsuta valenza antiborghese – soprattutto in coloro che si possono definire gli entomologi della vita urbana come George Grosz, Otto Dix o John Heartfield – genera dai lombi della satira la visione delle tragiche ed alienanti esistenze moderne (fig. 13): di fatto i corpi, dolenti e ferini al contempo, attraversano le strade urbane, ne affastellano la scena in una confusa e dionisiaca sarabanda compenetrante le architetture, senza decori e dalla primitiva geometria, con le diciture pubblicitarie, unendo, sovrapponendo e mescolando cose, persone e movimenti che sembrano possedere un vitalismo sensuoso ma vissuto come fatale. La città moderna e la società moderna posseggono una rutilante meccanicità che esautora ogni prova di bellezza pacificante e sapiente. In alcune opere di Grosz – come Metropolis (1916-17), Dedicato a Oscar Panizza (1917-18) o Germania: favola di inverno (1917)[23]– vi è chiara la destinazione d‘uso della cromia che tesse la trama della violenza da sopraffattore imposta dalle ‘colonne’ del capitalismo europeo (fig. 13)[24], prima e dopo la nascita della Repubblica di Weimar. Le folle presenti – composte ancora da esseri umani? – riempiono lo spazio, urlano, scalpitano, protestano e lamentano ragioni lungo le quinte urbane irrigidite ed incombenti che hanno adottato una inefficace geometria delle forme. Tutto – uomini, bestie, macchine – s’agita nei giorni febbrili del nuovo potere, mentre molte vittime tracimano sul selciato e la classe dirigente, nella nota sintassi grosziana, vomita, si ciba, copula, s’ubriaca... Nelle opere di Grosz, che riammaglia anche la sintassi dadaista e prosegue le ripartizioni futuriste dei piani visivi, si coglie l’ordito d’una composizione non euclidea, legando la definizione austera degli elementi architettonici in opere a partire dagli anni dieci. Nelle vedute di città del suo periodo americano – come nell’opera, con tratti d’ingenuità nella resa plastica, Dallas Skyline (1952)[25] con scheletrite sagome di costruzioni – prova a delineare uno profilo dal desolante carattere post atomico. Poiché altra via icastica aveva intrapreso Picasso con Guernica, bisognerebbe indagare su quale sia stato nell’arte il relativo ‘progetto di bellezza’, o quel che ne restava, com’è doveroso chiedersi, dopo che il bombardiere Enola gay sorvolò Hiroshima ed altri B-29 Nagasaki. Della città dipinta o di quella reale permane la traccia denudata (fig. 14)[26] delle sue funzioni gerarchiche e che non lascia comprenderne l’identità, come nell’assolate vedute italiane di Ben Shahn[27], realizzate ancora in epoca di guerra (1943-44), con cui sembra evidente l’affinità con la Berlino, tragicamente sospesa, filmata da Roberto Rossellini[28]. Circa due secoli prima la produzione artistica veneta s’era concessa la splendida e tesa opera di Bernardo Bellotto Dresda – I resti della Kreuzkirche[29], uno dei primi artisti europei a confrontarsi con le proprie ruine contemporanee e a segnare, nel complesso vedutismo urbano, una sorta di cesura, di scarto della memoria che diviene evento, nonché traccia da sottrarre alla dimenticanza. ![]() Il cinema è d’ambito culturalmente ed antropologicamente “urbano”, anche quando lancia il proprio peana inneggiando ad un’arcadia agricolo pastorale, con punte di ‘sano’ provincialismo, come nel periodo roosveltiano con Frank Capra ed il suo immenso It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa)[30] o nell’inseguito primitivismo e nell’ingenuo superomismo di una Leni Riefenstal e nelle altre cinematografie dittatoriali ove serpeggia – o, a volte, campeggia – perfino un certo ruralismo stucchevole, tanto artefatto da porsi come il punto di vista di un romantico viaggiatore senza scopo. ![]() Mr. Smith va a Washington (1940) o L’eterna illusione (1938) di Frank Capra schierano a favore di un seppur mieloso rapporto tra i ceti sociali le ragioni della semplicità e del coraggio di coloro che perseguono la verità, volendo persuaderci che alla fine l’apparente fragile o apparentemente libero vincono: infatti, Mr. Smith dalla grande provincia americana “arriva in città” e i differenti ceti risolvono in una pax infantilizzata i propri conflitti. Alcuni film sovietici, compresi del proprio ruolo pedagogico, assolvono la funzione di propagandare i temi della collettivizzazione o della nascita delle comunità agricole (i kolchoz, poi invisi allo statalismo). Il cinema è quindi urbano perchè la città, nelle sue devastanti contraddizioni, contiene le storie ma anche la facies tramite le immagini usate; è urbano e metropolitano per le ragioni contenute in una science fiction che deborda sempre, per statuto, dal presente, anche laddove restituisce una deriva della storia umana, veicolando un’idea ostativa del futuro inevitabilmente compromesso con le nostre strutturazioni oniriche[31]. In una pagina pubblicitaria della Shell (fig. 15), la ripartizione della scena rappresentata, in cui sfrecciano vetture con un alone preso in prestito dai cubo-futuristi, è un cartesiano omaggio alla geometria della pianificazione urbana sebbene una certa cupezza, di derivazione metafisica, complichi il risultato in una illustrazione ai limiti della naivetè. Da notare che la denominazione – e non il logotipo – della company è presente due volte: la prima piccola posta su una neoromanica apertura ad arco alla base di un compatto edificio, l’altra più grande che simula un’insegna luminosa ma inquadrata al rovescio. Tutto scorre e nel silenzio notturno risuona improvviso il rombo assordante dei motori[32]. RUOLO PRAGMATICO E INCOMBENZA SIMBOLICA DEI MEZZI DI TRASPORTO NELLO SCENARIO METROPOLITANO In Dodes’ka-dén[33] la città è drammaticamente evocata da Kurosawa, come un convitato di pietra, per l’assenza lancinante, per la perniciosa distanza tra “vita” immaginata e ghettizzazione reale: protagonista è infatti una bidonville fortemente teatralizzata; solo nella scena finale i tanti disegni che ricoprono interamente le pareti di una baracca riproducono tram urbani: sotto diverse forme con differenti segni e varie cromie la frenetica attività moderna finisce per identificarsi con uno dei mezzi di trasporto[34] (fig. 16a e 16b) che la vita metropolitana aveva messo al mondo. ![]() La necessità di collegare i “mondi urbani” si rafforza con l’inurbamento dovuto alle rivoluzioni industriali; anzi, è la vita urbana che, attraendo forza lavoro e contribuendo ad una mutazione antropologica, cambia l’uso del paesaggio e del territorio su cui insiste; mutano le “richieste” che la città nel passato rivolgeva all’ambiente che la includeva poiché si sono trasformate le gerarchie. Le connessioni tra i livelli e le organizzazioni della produttività squassano così l’immaginario: la città accoglie sì, ma spaccia per duraturo ciò che è, invece, effimero; le merci calcano i percorsi diversificati per tecnologia e funzione, le folle agitano desideri e formulano domande alla città, divenuta moderna dato che moderni sono gli innumerevoli feticci dell’accumulo[35] (fig. 17): moderni sono divenuti i popoli e moderne sono le forze in campo del potere economico. ![]() Il tema delle classi sociali nell’inurbamento era stato oggetto di riflessioni, di analisi e di critiche poste dentro le regole della città “nuova”, la città che sale, la città che qualificata dall’idea di futuro accoglie il nuovo che le energie sociali ed economiche esprimono con vigore. Come sarà la città dell’avvenire? Tra le immagini paradigmatiche della vita urbana c’è l’automobile che definisce gli assi viari, le tipologie di insediamento e le nuove ritualità di relazione tra individui, tra aree e tra città e territorio. La vettura[36] assurge a simbolo di un’era (fig. 18) ed anche il pistone di un motore di “un automobile da corsa” (al maschile) assomma su di sé, nell’ibrida foresta lessicale marinettiana, l’inclito destino di relegare la bellezza di una Nike di Samotracia nel muffito museo dell’oblio. Come si connettono, infatti, le città tra loro, visto che diviene sempre più necessario collegare i centri produttivi del pianeta? Incrementando i trasporti, lo spostamento sui territori di uomini e merci e con esse le idee: navi sempre più capienti, velivoli d’ogni foggia, treni che sfidano il vento e automobili che individualizzano la tenzone contro il tempo e la distanza da assottigliare. Il nuovo obiettivo consiste nel cogliere il futuro con la velocità, dispiegare le ali anche per lasciarsi alle spalle il passato. LE STAZIONI COME VALICHI TRA ANTICO E MODERNO Il tema architettonico ed urbanistico della stazione è da sempre stato visto come «la porta della moderna città», come recita anche un articolo vergato nell’agosto del 1912 sulla rivista mensile del T. C. I.; ivi si sostiene che le stazioni devono produrre una sorta di incantamento sul visitatore, convincerlo che la città che si appresta ad accoglierlo sia “ricca e fiorente, ove è vivo il culto dell’arte, e la popolazione non è soltanto ricca, ma pure ospitale e generosa”[37]. Prendendo esempio dalle omologhe opere nordamericane, le città europee dovrebbero “riconoscere nella ferrovia l’istrumento migliore della loro fortuna”[38]. Siamo all’inizio del secolo; da poco le avanguardie sono propugnatrici dell’assoluto nuovo, il moderno, a volte costruendo e a volte demolendo l’acquisito ed in entrambi i casi forniscono ‘lumi’ alla città ed ai suoi meccanismi, disvelando, al contempo e come non mai prima nella storia, la fascinosa terribilità della mutazione continua e dei suoi articolati effetti nell’immaginario collettivo. Le comunicazioni ferroviarie e le stazioni (fig. 19a, 19b e 19c)[39] incarnano così il salotto buono delle relazioni tra persone e popoli, tra territori e città: ma quali forme architettoniche meglio si adattano alle stazioni? Tra stazioni di testa e stazioni di passaggio ci si inerpica alle forme ad “U”, si giunge ai sottopassaggi o ai sovrapassaggi, si prosegue verso le partenze o gli arrivi con velocità o con stupefazione sotto tettoie che serrano nel loro dipanarsi la ‘memoria’ della centina dell’arco principale d’accesso. Il microuniverso delle stazioni si popola di viaggiatori fermi alle banchine di fumiganti binari, con ingombranti bagagli e biglietti alla ricerca di “spacci di tabacco, di libri e giornali”, con corrispondenze da inoltrare o da ricevere, tesi alla direzione di “ristoratori” o alle sale d’attesa divise sollecitamente in classi. L’estensore dell’articolo ricorda che nelle stazioni tedesche non mancano le torri, connotazione monumentale di un’algida vocazione militare, sulle quali campeggerà un orologio, il “simbolo architettonico più adatto per una stazione, ove la misura esatta del tempo è cosa essenziale”[40]. Le ineffabili forme sono generate spesso da rigide applicazioni di vetuste tipologie citando eclettici trattati accademici. Le nazioni pur aspirando alla modernità sono – tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – avvinte da una malintesa monumentalità. Si progettano stazioni come terme di Diocleziano (stazione di Washington, la città bianca) o di Caracalla (stazione New Pensylvania di New York, “la più grande e bella stazione del mondo”); sono disegnate con un cattivo barocco rappreso (la “pratica” del continente Sud America è sbrigata così) oppure sono mancanti di grandiosità, sebbene curate nei dettagli. All’elenco dei nomi delle città (Milano, Anversa, Amburgo, Londra, Parigi, Berlino, New York, Torino, Venezia, Genova, Francoforte, Lipsia, Basilea e Dresda) manca quello di Budapest poiché solo più tardi il cinema se ne approprierà (anche nel periodo dei telefoni bianchi) per render concreta una vagheggiata mitica città europea come nella pellicola di Lubitsch The Shop Around the Corner (Scrivimi fermo posta)[41]. Frattanto, aerostati, mongolfiere, dirigibili, velivoli[42] treni, convogli, navi, bastimenti, piroscafi, automobili, velocipedi, motocicli, torpedoni, si sobbarcano al fervido andare da una città all’altra. [Fine parte prima] ------ * Il presente saggio è una rielaborazione di contributi differenti, ampliati anche nei riferimenti bibliografici: - G. Cantone, LA CIVILTÀ URBANA NELL’ICONOGRAFIA DEL ‘900. Contributi dell’arte, della cultura e dei mezzi di comunicazione di massa. Dall’europea firmitas all’imago urbis americana, “Inarcassa”, trimestrale, anno XLIII, n. 4, 2015, pp. 80-86. - G. Cantone, Relazione all’VIII Congresso AISU, La città, il viaggio, il turismo - Percezione, produzione e trasformazione, Napoli 7/8/9 settembre 2017: Appunti per una narrazione possibile della civiltà urbana nell’iconografia del Novecento. Contributi dell’arte, della cultura e dei mezzi di comunicazione di massa. Sessione B14. Prodromi dell’identità urbana alla fine della modernità: il “lungo” Ottocento prepara il Secolo veloce, 08/09/2017, Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli. ELENCO ILLUSTRAZIONI Fig. 1 - Cartolina illustrata edita e diffusa a cura della “Navigazione Generale Italiana”, Società Riunite Florio-Rubattino; stampata da Stab. Pellas, Genova. Timbro postale: del piroscafo, 11 aprile 1906. Fig. 2 - Cartolina edita da A. Leconte, Paris. Timbro postale: Parigi, 19 marzo 1938. Fig. 3 - Foto riprodotta in Touring Club Italiano – Rivista mensile, anno XVIII, n. 8, agosto 1912, p. 413. Fig. 4 - Foto riprodotta in Touring Club Italiano – Rivista mensile, anno XVI, n. 11, novembre 1910, p. 576. Fig. 5 - Illustrazione di Sergio Tofano – in arte Sto (1886-1973), inventore delle avventure de Il signor Bonaventura, famoso personaggio di fumetti nato nel 1917 – pubblicata in La lettura, anno XXIV, n. 6, 1° giugno 1924, p. 431. Fig. 6 - Inserzione della Ditta Ercole Marelli & C. pubblicata in Il Secolo XX – Ars et labor, anno XIV, n. 2, febbraio 1915. Fig. 7 - Cartolina edita da Irving Underhill, 1912, N.Y. Timbro postale: New York, 1915. Fig. 8 - Post Card: The Heart of the city, Detroit, Mich., brev. n. 5756. Timbro postale: Detroit, 22 settembre 1921. Fig. 9 - Post Card: Hudson Terminal, New York. Timbro postale: New York, 20 agosto 1920. Fig. 10a - Fotogrammi del film L’uomo con la macchina da presa regia di Dziga Vertov, 1929. Fig. 10b - Ibidem Fig. 11 - Foto tratta da La lettura, anno XXXII, n. 1, gennaio 1932, p.15. Fig. 12 - Copertina Touring Club Italiano, anno XXIV, n. 9-10, settembre-ottobre 1918. Fig. 13 - La piramide del sistema capitalistico, Manifesto del 1912 riprodotto in The american legion Monthly, dicembre 1926, p. 23. Fig 14 - Bombardamento di Termonde, foto tratta da La Domenica del Corriere, n. 40, 1914. Fig. 15 - Inserzione pubblicitaria Shell, a firma Cava, quarta di copertina di Vie d’Italia, anno XXXVIII, n. 9, settembre 1932. Fig.16a - Torino-Interno giardino reale, edita da A. Diena, Torino. Timbro postale: Torino, 26 maggio 1924. Fig. 16b - Napoli-Litoranea, Timbro postale: Napoli, 10 luglio 1934. Fig. 17 - Foto tratta da La lettura, anno III, n. 3, marzo 1903, p.243. Fig 18 - Inserzione pubblicitaria Lancia da Touring Club Italiano, n. 1, 1915. Fig. 19a - Stazione di Anversa, foto tratta da Touring Club Italiano, n. 8, 1912. Fig. 19b - Stazione di Basilea, ibidem. Fig. 19c - Stazione di Amburgo, ibidem Fig. 20 - Aerei in volo, cartolina edita da s.i, Timbro postale: provenienza illeggibile, 4 maggio 1937. NOTE [1] Cartolina illustrata edita e diffusa a cura della “Navigazione Generale Italiana”, Società Riunite Florio-Rubattino; stampata da Stab. Pellas, Genova. Timbro postale: del piroscafo, 11 aprile 1906. [2] Cartolina edita da A. Leconte, Paris. Timbro postale: Parigi, 19 marzo 1938. [3] K. Malevic, Manifesto suprematista Unovis (1924), in: U. Conrads (a cura di), Manifesti e programmi perl’architettura del XX secolo, Firenze, Vallecchi, 1970, p. 77. [4] Antonio Sant’Elia, Architettura futurista – Manifesto, riproduzione fotografica del volantino originale in AntonioSant’Elia l’architettura disegnata, Catalogo mostra, Venezia 1991, ed. Marsilio, pp. 288-291. [5] Foto riprodotta in Touring Club Italiano – Rivista mensile, anno XVIII, n. 8, agosto 1912, p. 413. [6] Foto riprodotta in Touring Club Italiano – Rivista mensile, anno XVI, n. 11, novembre 1910, p. 576. [7] Illustrazione di Sergio Tofano – in arte Sto (1886-1973), inventore delle avventure de Il signor Bonaventura, famoso personaggio di fumetti nato nel 1917 – pubblicata in La lettura, anno XXIV, n. 6, 1° giugno 1924, p. 431. [8] Inserzione della Ditta Ercole Marelli & C. pubblicata in Il Secolo XX – Ars et labor, anno XIV, n. 2, febbraio 1915. [9] C. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, in Figaro [26 et 29 Novembre 1863], e in L’art romantique, Paris, [1868]. Cfr.: C. Baudelaire, Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1992. Cit. in: C. Baudelaire, La critica d’arte, a cura di A. Del Guercio, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 176-177. [10] Cartolina edita da Irving Underhill, 1912, N.Y. Timbro postale: New York, 1915. [11] J. W. Goethe , Viaggio in Italia, in Opere, Sansoni Editore, Firenze, 1970, p. 270 [12] Post Card: The Heart of the city, Detroit, Mich., brev. n. 5756. Timbro postale: Detroit, 22 settembre 1921. [13] Post Card: Hudson Terminal, New York. Timbro postale: New York, 20 agosto 1920 [14] Si fa riferimento al Documentario L’uomo con la macchina da presa (Celovek S Kinoapparatom), regia e soggetto di Dziga Vertov, operatore capo Michajl Kaufman, aiuto regista E. Svilova, casa produttrice VUFKU, Kiev, B/n, 67’, Russia, 1929. Cfr. anche Il Farinotti 2009. Dizionario di tutti i film, Newton Compton edizioni, Roma, 2008, p. 2112. Invece uno dei film cui bastano pochi fotogrammi per suggerire la presenza di una città, Odessa in questo caso, è La Corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin), regia Sergheij M. Eisenstein, con marinai della Flotta del Mar Nero, cittadini di Odessa ed attori professionisti, B/N, 50’, Russia, 1925. Cfr. Il Farinotti 2009, cit., pp. 510-511. Sulla filmografia di Eisenstein vedi A. Grasso, Ejzenstejn, Firenze, La Nuova Italia, 1975. Le prime prove ed i primi esperimenti erano ormai da tempo entrati nei linguaggi della visione, dal piano descrittivo ed enunciativo dei film dei fratelli Lumiére s’era passati velocemente alla straordinaria visività del cinema fantastico di Méliès e da questi alle elaborazioni successive il passo è stato breve. [15] Vertov fu in verità accusato di “formalismo”, poco incline a farsi seguace del diktat estetico del realismo. Nella polemica scaturita vi ebbero parte anche Trockij ed Ejchenbaum sostenendo diverse posizioni. Cfr.: P. Montani, Dziga Vertov, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 54-61. Nel film documentario vi sono riferimenti alla composizione visiva di cortometraggi come Ballet macanique di Fernand Leger che è del 1924, in cui le sbilenche sovrapposizioni di inquadrature in dissolvenza strutturano anche il film di Vertov, che, ancora da Entr’acte di René Clair (1924) – che esibisce come protagonisti delle prime inquadrature il musicista Erik Satie ed il pittore Francis Picabia nel ruolo d’aedi antimilitaristi – produce un collage in ritmo disomogeneo, non stemperando l’ironia di regista francese. Clair intravedeva una difficoltà di ricezione reale per l’opera delle ‘avanguardie’ nel gusto del pubblico che era portato ad intendere il loro ruolo solamente nell’uso eccessivo delle ricerche tecniche. Cfr. R. Clair, Riflessioni sul cinema, Milano, Excelsior, 2007, p. 169. Le interazioni uomo/macchina, uomo/strada e uomo/architettura sostanziano da sempre la “messa in scena” della civilizzazione industriale, infatti è come se molti film presupponessero come acquisita l’iconografia degli aggregati umani altrimenti detti città. [16] La filiazione dalle esperienze delle pattuglie futuriste è palese; le compenetrazioni di Balla o di Boccioni sono a loro volta elaborazioni e svolgimenti d’una sintassi cezanniana e d’una grammatica cubista, entrambe tese alla “costruzione” della forma non più e solamente “espressiva” ma icastica della modernità. [17] G. Boffa, Storia dell’Unione sovietica, Roma, L’Unità, [1976-1979] 1990, vol. II, pp. 50-92. [18] Cfr.: P. Montani, op. cit., in nota 2, pp. 107 e segg. [19] G. Grosz, Un piccolo sì e un grande no, Milano, Longanesi, 1948. Nella sua autobiografia Grosz rimarca l’inscindibilità del rapporto tra etica ed estetica nella doverosa consapevolezza che ogni artista ha del proprio contesto sociale e creativo. [20] Cfr. E. Bertonati, Il realismo in Germania, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1969; AA.VV., Il realismo in Germania, cat. mostra, (a cura) Ripartizione iniziative culturali, Comune di Milano, 1971; Uwe M. Schneede (a cura di), George Grosz, Milano, Mazzotta, 1977. [21] Immagine fotografica tratta da La lettura, anno XXXII, n. 1, gennaio 1932, p.15. [22] Copertina Touring Club Italiano, anno XXIV, n. 9-10, settembre-ottobre 1918. [23] George Grosz, Metropolis, 1917, olio su cartone, cm. 68x47,6, New York, Museum of Modern Art. - G. Grosz, Dedicato a Oscar Panizza, 1917-‘18, olio su tela, cm. 140x110, Stoccarda, Staatsgalerie. - G. Grosz, Germania: favola di inverno, 1917-’19 (disperso). [24] La piramide del sistema capitalistico, Manifesto del 1912 riprodotto in The american legion Monthly, dicembre 1926, p. 23. [25] George Grosz, Dallas Skyline, 1952, olio su tela, cm. 49.53 x 74.93, Dallas, Museum of Art. [26] La didascalia originale recita: La profondità dei danni del bombardamento tedesco in una via di Termonde (Belgio). Foto tratta da La Domenica del Corriere, anno XVI, n. 40, 4-11 ottobre 1914, p. 9. [27] B. Shahn, La forma e il contenuto, (a cura di) A. Del Guercio, Roma, Editori Riuniti, 1964. [28] Cfr. Germania anno zero, regia di Roberto Rossellini, con B. Hintze, F. Kruger, B/N, 75’, Italia, 1948. Cfr. Il Farinotti 2009, op. cit., 2008, p. 847. [29] B. Bellotto, Dresda - I resti della Kreuzkirche, da Est, 1765, olio su tela, cm. 80x110, Dresda, Gemaldegalerie. Vedi L’opera completa di Bellotto, intr. e coord. da E. Camesasca, Milano, Rizzoli Editore, 1974. [30] Frank Capra, nel suo capolavoro da cinque nominations al premio Oscar, è talmente convinto dell’inscindibile rapporto tra individuo e comunità da optare per una mutazione antropologica della stessa città – nell’ipotesi sorretta da un angelo (Clarence) risolutore ex machina del conflitto interiore del protagonista (George), spinto al suicidio per problemi economici –; nell’acme della visualizzazione di cosa sarebbe accaduto se il protagonista non fosse mai nato, Capra cambia persino la denominazione della città da Bedford Falls in Pottersville, mutuata dal cognome del cattivo capitalista sopraffattore della vita urbana, illustrando Pottersville come città dedita al vizio e al crimine ed in cui gli uomini non trovano il proprio riscatto, che è insito invece nella solidarietà espressa dalla comunità di Bedford Falls nei confronti del protagonista. Vedi La vita è meravigliosa, regia di Frank Capra, con J. Stewart, D. Reed, L. Barrymore, B/N, 129’, USA, 1946. Cfr. Il Farinotti 2009, op. cit., 2008, p. 2193. Per la documentazione e la sceneggiatura vedi J. Basinger, The It’s Wonderful Life book, Alfred A Knopf Inc, First Edition 1986. [31] Ci si riferisce alla produzione cinematografica di fantascienza nel suo intero e complesso percorso dai terrorizzanti marziani degli anni cinquanta fino alle pietre miliari dei replicanti di film come Blade runner, passando per Johnny Mnemonic o Matrix; come dire: dal mostro all’inquieta virtualità, cioè l’altro che insegue l’io nella conflittualità tra scenario possibile e memoria ovattante ma in cui si ha nostalgia del futuro e delle sue declinazioni probabili. [32] Inserzione pubblicitaria: Shell, a firma Cava, è comparsa sulla quarta di copertina di Vie d’Italia, anno XXXVIII, n. 9, settembre 1932. [33] Dodes’ka-dén, regia di Akira Kurosawa, con K. Sugal, K. Tange, COL., 140’, Giappone, 1970. Cfr. Il Farinotti 2009, op. cit., 2008, p. 618. [34] Cartoline: Torino-Interno giardino reale, edita da A. Diena, Torino. Timbro postale: Torino, 26 maggio 1924; Napoli-Litoranea, Timbro postale: Napoli, 10 luglio 1934. [35] Immagine fotografica tratta da La lettura, anno III, n. 3, marzo 1903, p.243. [36] Inserzione pubblicitaria: Lancia, a firma S.A.I.G.A. Armanino, è comparsa sulla quarta di copertina di Touring Club Italiano, anno XXI, n. 1, gennaio 1915. [37] F. Tajani, L’architettura delle stazioni, in Touring Club Italiano, anno XVIII, n.8, agosto 1912, p. 409. [38] Ivi, p. 410. [39] Le immagini sono a corredo dell’articolo di F. Tajani, cit. in Touring Club Italiano. [40] F. Tajani, cit. in Touring Club Italiano, p. 417. [41] Scrivimi fermo posta, regia di Ernst Lubitsch, con J. Stewart, M. Sullavan, B/N., 97’, USA, 1939. Cfr. Il Farinotti 2009, op. cit., 2008, p. 1755. Sulla filmografia di Lubitsch vedi G. Fink, Lubitsch, Firenze, La Nuova Italia, 1977. [42] Cartolina: Aerei in volo, edita da s.i, Timbro postale: provenienza illeggibile, 4 maggio 1937. ![]()
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