di Ledo Prato “Forse, senza saperlo (e qualcuno ancora affezionato alla potenza delle aree metropolitane), stiamo entrando in un ciclo nuovo della vita sociale italiana”, si conclude così l’introduzione scritta da Giuseppe De Rita al volume L’Italia Policentrica. Il fermento delle città intermedie, pubblicato dalla FrancoAngeli e curato da Mecenate 90 in collaborazione con l’Ufficio Studi dell’ANCI e Cles Economia. Il “forse” di De Rita è d’obbligo per uno studioso attento. Per questo il Rapporto cerca di indagare la complessa realtà delle città intermedie per cogliere quegli elementi a cui affidare una nuova lettura del sistema Paese. Il tempo è quello giusto. Se agli inizi di questo secolo abbiamo concentrato le nostre attenzioni sulle megalopoli, “le città mondo”, con il tempo abbiamo scoperto che esse contengono circa il 3% della popolazione mondiale. E se è vero che rappresentano i più importanti insediamenti di capitali, economie sviluppate ed innovazioni, ora stiamo scoprendo che la qualità della vita di quelle comunità è fortemente compromessa da alti livelli di inquinamento e da disparità sociali che investono ampie fasce di popolazione. L’interesse diffuso per i temi legati all’ambiente, alla difesa della natura e dell’equilibrio dell’ecosistema, hanno contribuito ad allargare il nostro orizzonte e aperto la strada a nuovi protagonisti. Per tornare al nostro Paese, se si guardano da vicino i fondamentali delle politiche pubbliche adottate dai diversi Governi a favore delle aree urbane, emerge che le risorse sono state utilizzate soprattutto a favore delle città metropolitane (PON Metro) e delle aree interne (Strategia Nazionale per le Aree interne) e gli esiti non corrispondono alle aspettative. Tra risorse non ancora utilizzate (come nel caso del PON Metro) e ripensamenti ingiustificati da parte del Governo “Conte 1“ (come nel caso della Strategia Nazionale delle Aree Interne), non si può certo fare una valutazione positiva delle politiche pubbliche nazionali del decennio appena concluso. Le strategie adottate sono state parzialmente corrette dalla Programmazione Regionale dello Sviluppo di alcune Regioni italiane che hanno destinato una quota parte delle risorse allo sviluppo delle città di medie dimensioni (circa 1,6 miliardi). Da dove nasce lo “strabismo” delle politiche pubbliche? Per oltre un decennio si è ritenuto che si potessero polarizzare le politiche di sostegno nelle aree più avanzate o comunque con un potenziale più alto di sviluppo possibile (le aree metropolitane) e in quelle strutturalmente più deboli (le aree interne, i piccoli centri) a rischio di progressivo abbandono e di declino economico. Queste valutazioni sono state comuni a governi di diverso orientamento politico, senza quindi soluzione di continuità. È sembrata prevalere l’idea che i grandi capitali, le grandi imprese, come è avvenuto in alcune parti del mondo soprattutto asiatico, fossero particolarmente attratte dalle grandi metropoli, considerate come gli ambienti più favorevoli ad uno sviluppo accelerato dell’economia e dei servizi avanzati. Allo stesso tempo però, soprattutto in Europa, dove permangono estese aree in ritardo di sviluppo (fra queste le aree interne, di montagna e i piccoli centri), si è ritenuto che dovessero essere impegnate importanti risorse pubbliche per salvaguardare i livelli minimi di vivibilità e rilanciarne lo sviluppo. In mezzo il vuoto. Non è quindi un caso che il Rapporto “L’Italia Policentrica” sia il primo dedicato alle città intermedie. È mancata una qualunque analisi, e politiche conseguenti, riferite a quel tessuto, soprattutto italiano ma di rilievo in tutta Europa, rappresentato dal sistema reticolare delle città intermedie. Si è sottovalutato che un Paese, una economia, una società si nutrono di interdipendenze. Ed è mancato il coraggio, la capacità di scoprirle e di governarle. E se è innegabile che i processi di cambiamento e di modernizzazione spesso si condensano in alcuni luoghi (vedi Milano), è altrettanto vero che quegli stessi processi si diffondono con fatica, con tempi e modalità differenti. Per tali ragioni servono politiche economiche strategiche di medio lungo periodo capaci di accompagnare la valorizzazione delle vocazioni territoriali per connetterle in un disegno armonico dello sviluppo, ricomponendo le faglie determinate dalla crescita di alcune aree a scapito di altre. L’importanza di una Agenda Urbana nazionale si capisce meglio se si tiene conto del quadro appena descritto. Un’Agenda Urbana che si articoli lungo tre assi: le aree metropolitane, le città intermedie, le aree interne e i piccoli centri. Il “buco nero” è determinato dall’assenza di un asse dedicato alle città intermedie. Il cosiddetto Bando Periferie (uno strumento di politica economica che ha premiato 120 progetti presentati dalle città metropolitane e dai comuni capoluogo con investimenti per 3,8 miliardi di euro) non ha colmato il buco. In questo contesto il Rapporto analizza quella articolata rete di città di medie dimensioni che per tradizione rappresentano un’armatura importante del Paese in termini di ricchezza di risorse, di qualità del tessuto produttivo e di patrimonio sociale e culturale. E prima ancora si prova a colmare un’altra lacuna: quali indicatori possono essere presi a riferimento per individuare le città intermedie, data la pluralità e la variabilità delle componenti in gioco? Quali dimensioni, più di altre, contribuiscono ad una loro specifica definizione? Lo stesso termine “città”, senza l’aggiunta di altri elementi qualificativi, si presta a un duplice significato: può indicare una località urbana con una popolazione superiore ad una soglia demografica o un contesto urbano con una dimensione minore, ma con una sua rilevanza in termini culturali, politici ed economici. Per completare il quadro di osservazione, oltre alla diversità degli approcci emersi nel dibattito più allargato sulla dimensione urbana, sono richiamati anche i parametri adottati a livello europeo. In questo caso si riscontrano tre differenti approcci: quello amministrativo che delimita le aree urbane su base normativa; l’approccio morfologico che definisce le aree urbane in base alla sua estensione fisica; l’approccio funzionale che definisce gli agglomerati urbani secondo caratteristiche socio-economiche. In termini sintetici l’Eurostat distingue fra: City, Greater city e Functional Urban Area. Nel merito la City è una unità amministrativa in cui la maggior parte della popolazione vive in un centro urbano di almeno 50.000 abitanti; la Greater city indica un centro urbano che si estende oltre i confini della città amministrativa; la Functional Urban Area circoscrive la città e la sua zona di pendolarismo. Anche l’ISTAT ha prodotto diverse mappe del territorio italiano con l’obiettivo di offrire una base analitica per confrontare la dimensione fisica del territorio, gli spazi definiti dalle relazioni tra luoghi di vita, luoghi di lavoro e confini amministrativi. Individuazione, selezione e caratteristiche delle città intermedie Dalla comparazione fra i diversi criteri utilizzati è emersa la consapevolezza che per caratterizzare una condizione urbana non è sufficiente affidarsi ad un unico criterio, sia esso di natura morfologica, demografica o amministrativa. È sembrato altrettanto utile prendere a riferimento la sua dimensione socio-economica, oltre che le funzioni urbane di un certo rilievo, che danno luogo ad un centro di interscambio con una serie di servizi che generano flussi di pendolarismo e di mobilità. In questa prospettiva, le città intermedie sono state individuate ricomponendo la geografia territoriale del nostro Paese, adottando una metodologia che si può sintetizzare in cinque passaggi analitici. Nel merito si è preso a riferimento: ─ il nuovo quadro istituzionale che ha fatto seguito alla Legge n. 56 del 7 aprile 2014, in materia di Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (c.d. Legge Delrio); ─ la dimensione demografica individuando, mediante stima statistica, una soglia demografica – pari a oltre 24 mila residenti – coerente con la scala dimensionale dei comuni italiani; ─ le caratteristiche funzionali dell’agglomerato urbano definite sulla base della capacità di offrire servizi (di istruzione, di sanità e di mobilità); ─ gli aspetti qualificanti la città in termini di capacità di accoglienza turistica e in relazione alla sua individuazione come Centro di Sistema Locale del Lavoro a vocazione manifatturiera. Nel primo caso, i singoli Comuni sono stati selezionati mediante la stima dell’indice di offerta turistica, con l’idea che una maggiore offerta di strutture di ospitalità – in termini di posti letto – sia una prima base indicativa della capacità attrattiva di un territorio. Nel secondo caso, sono stati selezionati i Comuni Centro di un Sistema Locale del Lavoro con specializzazione produttiva prevalentemente manifatturiera, al fine di affiancare ai territori a vocazione turistica anche quelli a vocazione manifatturiera. Dagli esiti di questa elaborazione combinata si è ottenuto un universo di 161 Comuni, articolati in: · 95 Comuni non metropolitani capoluogo di provincia; · 66 Comuni non metropolitani con presenza o accessibilità ai servizi di base, una capacità di accoglienza turistica superiore alla media o Centri di un Sistema Locale del Lavoro pur in presenza di una minore capacità ricettiva. Un quadro alquanto composito per dimensione demografica, per articolazione territoriale e per caratteristiche funzionali. Con riferimento al 2017, anno in cui sono stati elaborati i dati, nei 161 Comuni selezionati si contano oltre 11 milioni di residenti, il 18% della popolazione del nostro Paese. Le città selezionate presentano tutte le caratteristiche che descrivono un universo di città di medie dimensioni, con soglie demografiche consistenti – 52 Comuni hanno una popolazione superiore a 50 mila residenti e 31 Comuni registrano una popolazione superiore ai 100 mila residenti –. Nell’insieme, le città intermedie presentano quelle peculiarità che definiscono un agglomerato urbano funzionale: (i) sono centri di offerta di servizi di istruzione, di sanità e di mobilità; (ii)hanno una fattiva capacità di strutture ricettive o esprimono territori a vocazione manifatturiera. Un universo che si interpone tra le Città metropolitane e una vasta area di Comuni non metropolitani. Dall’analisi emerge l’esistenza di veri e propri arcipelaghi territoriali, nuovi modelli insediativi composti da città intermedie, depositi di patrimonio culturale materiale e immateriale, che si rivelano come ecosistemi dinamici, alternativi alla congestione delle aree metropolitane. Luoghi apparentemente marginali sono diventati, in molti casi, hub in grado di connettere il tessuto reticolare dei centri urbani minori con le reti globali. Un fenomeno di notevole dimensione ancora poco esplorato. Il settore culturale e quello turistico evidenziano una particolare vivacità. Nel 2015 il patrimonio culturale italiano comprende 4.964 musei e istituti similari aperti al pubblico. Il 58,2% del totale si concentra nei comuni non metropolitani che contano 2.887 musei e istituti similari aperti al pubblico, un numero più che doppio rispetto a quello registrato nelle città metropolitane dove si contano 1.175 musei e istituti similari, pari al 23,7% del totale Italia. Le città intermedie vantano un patrimonio culturale pari a 902 musei e istituti similari aperti al pubblico e rappresentano il 18,2% dei musei italiani e il 31,2% dei musei degli altri comuni non metropolitani. Il 91,2% dei musei e istituti similari italiani non è statale, il restante 8,8% è statale. In particolare, nelle città metropolitane l’incidenza dei musei e istituti similari non statali è inferiore al dato nazionale (86,6%) mentre è maggiore nei comuni non metropolitani (93,5%). Nelle città intermedie l’incidenza dei musei e istituti similari non statali aperti al pubblico è pari all’89,5%, una quota inferiore a quella osservata a livello nazionale. Nei comuni non metropolitani, fra il 2011 e il 2015, si osserva una crescita maggiore con 295 musei e istituti similari in più (+11,4%), a fronte dell’aumento registrato nelle città metropolitane, dove si contano 57 musei e istituti similari in più (+5,1%). Nelle città intermedie si registrano 69 musei e istituti similari in più pari ad un aumento dell’8,3%, di poco inferiore all’incremento osservato a livello nazionale. I cambiamenti che hanno caratterizzato tanto i luoghi della cultura quanto i soggetti produttori o promotori di eventi culturali sembrano delineare una gestione delle risorse culturali altalenante tra dinamismi e fragilità. La mutata consapevolezza di una cultura intesa come risorsa economica e sociale ha favorito lo sviluppo e la diffusione di prodotti culturali inediti, oltre che modalità nuove di fare cultura. Il patrimonio culturale viene sempre più riconosciuto come una risorsa fondamentale per lo sviluppo sostenibile e, più in generale, la cultura è declinata anche con le politiche della rigenerazione urbana. Nei fatti, si assiste ad un cambiamento per certi versi innovativo ma incuneato nella spirale del ridimensionamento delle risorse economiche, pubbliche e private. Nel settore turistico, tra le 161 città si contano 39 comuni che registrano un numero di presenze turistiche per abitante superiore alla media nazionale, pari a circa un comune su quattro (24,2%). Nel periodo 2014-2018 nei comuni non metropolitani le presenze straniere crescono in misura maggiore (+15,8%) rispetto alle presenze dei residenti in Italia (+9,6%); mentre nelle città metropolitane la crescita delle notti trascorse dai clienti stranieri negli esercizi ricettivi è di poco superiore (+16,6%) a quella dei clienti residenti (+16,1%). Nelle città intermedie la crescita delle presenze turistiche straniere è pari a +13,9% a fronte di +9,7% registrato per le presenze dei residenti in Italia. Un dato che conferma il livello di attrattività turistica che le città intermedie hanno raggiunto offrendosi spesso come mete, destinazioni, di un turismo esperienziale interessato a frequentare luoghi al di fuori dei circuiti più tradizionali delle grandi città d’arte. Per valutare il grado di dinamismo economico delle città intermedie, si può prendere a riferimento il dato rappresentato dalle startup innovative la cui nascita, come è noto, è stata incoraggiata dalla policy nazionale per favorire la sostenibilità di nuove idee progettuali. Nel merito si annoverano forme imprenditoriali caratterizzate da: (i) una significativa quota di fatturato dedicato a Ricerca e Sviluppo; (ii) una rilevante quota di soggetti coinvolti con titoli universitari oltre il primo livello; e (iii) dal possesso di brevetti o software registrati. Nello spirito della policy le startup rappresentano una leva significativa di sviluppo e competitività nei processi di innovazione ma soprattutto esprimono forme di imprenditorialità pensate per aziende capaci di crescere in fretta, di accogliere la rapidità dei cambiamenti. Le città intermedie mostrano di essere un ambiente piuttosto favorevole al loro sviluppo, registrando 27 startup ogni 100 mila residenti, una densità imprenditoriale superiore sia a quella osservata nelle città metropolitane (22 startup ogni 100.000 residenti) sia a quella registrata nei comuni non metropolitani (8 startup ogni 100.000 residenti). Più in generale il sistema produttivo delle città prese a riferimento si colloca su una diversa scala di vitalità a seconda della dimensione economica e della presenza di imprese competitive sui mercati internazionali – in gran parte dei casi appartenenti ai settori manifatturieri del Made in Italy –. Si distinguono città già connesse con le aree più prospere e competitive dell’Europa e città meno competitive dove però sono presenti imprese singole o nuclei imprenditoriali ad altissima competitività internazionale. Infine, per completare il quadro relativo alle 161 città intermedie è opportuno fare riferimento alle dinamiche demografiche all’interno del fragile quadro nazionale. La composizione della popolazione per classi di età registra una più alta percentuale di anziani nelle città intermedie, dove un residente su quattro circa ha più di 65 anni (24,0%). A conferma si registra un alto indice di vecchiaia (189 anziani su 100 giovani con meno di 14 anni di età) oltre che un alto indice di dipendenza anziani (38%) e di dipendenza strutturale (58%). La distinzione secondo la nazionalità dei residenti rileva una maggiore percentuale di stranieri nelle città intermedie (10,2%) rispetto alle città metropolitane (9%). Le differenze territoriali registrano un processo di invecchiamento maggiore nelle aree non metropolitane rispetto alle aree metropolitane. Questi dati sono alla base di politiche di welfare urbano, in molti casi, con forti contenuti di innovazione (social housing, badante di condominio, assistenza domiciliare, servizi di prossimità, politiche di integrazione per gli immigrati, centri di assistenza per famiglie indigenti e così via). Veri e propri Laboratori sociali animati da organizzazioni del Terzo settore e dalle Fondazioni bancarie. Gli esiti di un focus su dieci città Attraversando alcune di queste città (Varese, Pordenone, Parma, Ascoli Piceno, Foligno, Rieti, Benevento, Lecce, Cosenza e Ragusa), confrontandoci con oltre 300 testimoni della vita istituzionale, economica, sociale, culturale, persino quelle che sembrano ai margini dei processi economici e sociali più dinamici, ne abbiamo ricavato un quadro incoraggiante. Ciascuna con le sue peculiarità, sono tutte città resilienti, a volte con un dinamismo economico, sociale e culturale che contraddice le narrazioni sulle città non metropolitane, contrapposte con le aree metropolitane. I processi di cambiamento che attraversano queste città si svelano lentamente ma in modo efficace. Fanno i conti con le difficoltà finanziarie degli Enti locali, la carenza degli organici e l’impoverimento dei servizi. E tuttavia costruiscono forme inedite di welfare urbano, lontano dalle cronache nazionali. Le diseguaglianze esistono e durano ma non lasciano inerti né le istituzioni pubbliche e, spesso, neanche il complesso e variegato mondo culturale, del non profit e persino delle imprese. Anche in queste città convivono imprese innovative, vocate alle esportazioni, e piccole imprese artigiane, con specializzazioni territoriali che hanno raggiunto livelli e profili internazionali. Dove sono sedi di Università sono nati microsistemi di startup alimentati da incubatori sostenuti anche dal sistema imprenditoriale, dalle Camere di Commercio e, in alcuni casi, dalle Fondazioni bancarie. Tutte sono dotate di importanti infrastrutture culturali che hanno contribuito in misura rilevante a migliorare la qualità della vita urbana, a incrementare la domanda turistica, soprattutto quella più orientata verso città d’arte meno affollate, a sviluppare diverse forme di associazionismo e di imprenditorialità culturale. In alcuni casi il patrimonio culturale materiale e immateriale è diventato motore di uno sviluppo urbano condiviso con i soggetti profit e non profit. Tutte hanno governato, o stanno governando, processi di rigenerazione urbana all’interno di un ripensamento delle dinamiche dello sviluppo urbano e dei mutamenti della domanda sociale. In molti casi le trasformazioni di porzioni importanti delle città non sono state calate “dall’alto”. Sono state piuttosto l’esito di processi di co-progettazione, di co-creazione fondati sul riconoscimento delle capacità delle comunità di confrontarsi con temi complessi, con le diversità delle istanze sociali. Una partecipazione multiattoriale ha consentito al privato economico e al privato sociale, con la regia delle Amministrazioni pubbliche, di comporre interessi legittimi a volte contrastanti, individuando l’interesse generale, verificando la fattibilità dei diversi progetti, la coerenza con uno sviluppo urbano che rispettasse le vocazioni delle città. In alcuni contesti urbani gli spazi rigenerati hanno aperto le città a nuovi e più sofisticati servizi, hanno restituito qualità a contesti degradati, hanno contribuito a mobilitare nuove energie in ambito sociale e culturale, hanno favorito la nascita e lo sviluppo di microeconomie, hanno affrontato i fenomeni di segregazione spaziale. I casi di maggior successo sono contrassegnati da un alto grado di condivisione delle scelte operate che hanno generato nuove forme di esercizio della cittadinanza. Possiamo riassumere queste politiche in un’azione di ri-tessitura del sistema urbano con una scomposizione e ricomposizione del patrimonio immobiliare dismesso, abbandonato o sottoutilizzato per trasformarlo in piattaforme abilitanti di innovazione sociale, con uno sguardo al rammendo della coesione sociale. Più che operazioni di ripristino del decoro urbano possiamo definirli come veri e propri Laboratori urbani i cui esiti potrebbero avere un impatto di medio-lungo periodo sulla qualità urbana delle città. I fermenti che popolano il tessuto sociale e culturale non sono altrettanto evidenti nelle organizzazioni di rappresentanza, nelle autonomie funzionali, con alcune eccezioni che segnalano vie di uscita possibili per il ruolo dei corpi intermedi. In molti casi, soprattutto nelle città intermedie di più piccole dimensioni, sono in corso processi di riorganizzazione, accorpamenti non condivisi, conflitti animati dalle scorie del localismo. In altri casi, laddove le economie sono più solide e di antica storia, il protagonismo dei corpi intermedi è piuttosto evidente e non di rado genera forme di collaborazione con le Amministrazioni locali che hanno un impatto sullo sviluppo ordinato delle relazioni tra istituzioni e soggetti privati organizzati, con evidenti benefici sulle città. È tuttavia evidente che laddove lo sviluppo economico è più debole o addirittura è fermo da anni, ne risentono anche i soggetti della rappresentanza. La loro rilevanza si fa più rarefatta ma non rassegnata. Verso nuovi modelli di governance Non può mancare infine un riferimento ai processi in corso nel sistema di governance delle città intermedie. Nel Rapporto si richiama in più occasioni la L. 56/2014 (cosiddetta Legge Delrio) con cui si è proceduto al superamento delle Province, all’istituzione delle Città metropolitane, alla promozione delle Unioni e fusioni tra piccoli Comuni. In questa sede non entriamo nel merito della legge. Ci limitiamo ad osservare che l’incompiuto disegno riformatore ha lasciato irrisolti nodi importanti relativi all’esercizio di alcune funzioni un tempo esercitate dalle Province con risorse umane e finanziarie dedicate. In questo contesto, soprattutto le città intermedie capoluogo di provincia, hanno finito con l’assumere compiti e funzioni che, seppur normativamente non disciplinati, hanno consentito di rispondere ad esigenze di interesse dei Comuni di prossimità. Gli strumenti utilizzati vanno dai Tavoli di concertazione ai Protocolli di collaborazione per affrontare temi connessi con il trasporto pubblico locale, la raccolta dei rifiuti, la viabilità extraurbana. Tutti ambiti rispetto ai quali le funzioni delle Province sono state indebolite dalla scarsità delle risorse e dalla carenza di personale. Nei casi che abbiamo esaminato le città capoluogo hanno ripreso ad assumere un ruolo di coordinamento di territori più vasti, esercitando una leadership che in alcuni contesti si era affievolita. Le città intermedie hanno quindi cominciato a farsi carico dei centri minori di prossimità ma c’è un secondo aspetto che merita di essere evidenziato. La competizione fra territori ad una scala sovranazionale ha indotto molte città intermedie a stringere accordi, intese istituzionali in una dimensione di area vasta. Se Varese stringe accordi con Como e Lecco e in Svizzera con Lugano e il Canton Ticino, Pordenone si collega con il Veneto e non solo, Parma fa altrettanto con Piacenza e Reggio Emilia, Ascoli Piceno con Fermo e Macerata, Lecce stringe accordi con Brindisi e Taranto. Anche Foligno, città non capoluogo, si collega con Spoleto e i centri della Valle dell’Umbria. Ognuna di queste esperienze ha caratteri originali e finalità specifiche. Tutte però muovono dall’idea che sia necessario costruire piattaforme di sviluppo di area vasta, mettendo a sistema le risorse emergenti dei territori, organizzando i servizi più innovativi su una scala sovra comunale, migliorando l’offerta formativa, coordinando le politiche di trasporto di persone e merci, valorizzando le vocazioni territoriali, adottando politiche ambientali e infrastrutturali sovracomunali. Hanno in mente di interpretare così una duplice esigenza: connettersi con gli indirizzi della Commissione europea per il prossimo ciclo di programmazione; competere con le stesse aree metropolitane cercando una propria strada allo sviluppo dei territori di riferimento. Stanno quindi emergendo forme inedite di governance dei sistemi locali che, seppure nell’ambito di un quadro normativo vincolante, sperimentano sistemi di governance che meritano di essere approfonditi e valutati con particolare interesse. Segni di una vivacità, di un fermento accolto spesso con favore dal sistema produttivo e dai principali attori territoriali ma per lo più ignorati dalle politiche nazionali. Scrive Antonio Decaro, Presidente ANCI nella Presentazione del Rapporto: “Occorre oggi che i diversi programmi di policy che insistono sulle aree urbane trovino coerenza e continuità. Ecco il senso dell’Agenda urbana: dare strutture e strumenti di supporto ai Comuni e una programmazione di medio-lungo periodo per uscire dalla frammentazione e dall’episodicità degli interventi. Quale che sia il perimetro individuato per l’insieme delle città di medie dimensioni, sono le politiche ad esse destinate a rappresentare l’ossatura di un’Agenda Urbana nazionale, che per l’associazione dei Comuni è parte di un più complessivo approccio che territorializzi le politiche, e dia agli interventi pubblici un fondamento basato sui territori”. Abbiamo iniziato questa riflessione segnalando che “forse stiamo entrando in una nuova fase della nostra vita sociale”. Questa considerazione rimane valida ma si connota diversamente dopo la grave situazione sanitaria che ha colpito il nostro Paese. E tuttavia, nel momento della rinascita, della ripartenza, sarà molto importante poter contare sul tessuto produttivo, culturale e sociale insediato nelle città intermedie. Non potranno essere le sole città metropolitane a guidare la ripresa del Paese, non sarebbe possibile. Anzi potrebbe essere illusorio. Così come è avvenuto in quella straordinaria stagione del secondo dopoguerra che ha generato il cosiddetto boom economico facendo del nostro piccolo Paese un grande player della scena europea e mondiale, anche oggi le città intermedie potranno e sapranno essere una leva importante su cui agire. Per queste ragioni all’interno del PNRR (Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza), programma di investimenti che l'Italia deve presentare alla Commissione europea nell'ambito del Next Generation EU, dovrà trovare spazio una nuova Strategia Nazionale per le Città Intermedie che si accompagni al PON (Programma Operativo Nazionale) per le Città metropolitane e alla Strategia Nazionale delle Aree Interne. Le città rappresentano il punto di caduta di tutte le dinamiche territoriali e delle sfide aperte dalla crisi economica e pandemica. Alle città intermedie va data quindi la possibilità di predisporre un’Agenda Urbana incardinata sulle 6 missioni della Next Generation EU declinabili a una scala territoriale, secondo Linee guida stabilite nell’ambito della Conferenza Unificata. Le Agende Urbane potranno fare riferimento alle Città capoluogo e ai Comuni limitrofi e dovranno essere presentate al CIPE, struttura in grado di verificare la loro coerenza con la NGEU. L’obiettivo è evitare la frammentazione degli interventi ed assicurare effetti positivi di lungo periodo attraverso la valorizzazione delle risorse territoriali, produttive e professionali endogene, le ricadute occupazionali dirette e indirette nonché l’incremento dell’offerta di beni e servizi connessi al benessere delle persone e allo sviluppo delle imprese. La nuova Strategia Nazionale per le città intermedie dovrà avere una dotazione finanziaria adeguata e prevedere il rispetto della quota riservata alle aree del Mezzogiorno. Potrà essere quindi dotata sia di risorse previste nell’ambito delle missioni della NGEU coerenti con lo sviluppo sostenibile a scala territoriale che con le risorse del Programma di Coesione 2021/2027. È in gioco l’Italia policentrica, consapevole delle sfide della contemporaneità, che fa leva sulle risorse dei territori per interpretare al meglio le istanze delle proprie comunità. Sono le città che sfidano la forma del presente per costruire un futuro migliore.
Comments are closed.
|
Archivio
Gennaio 2023
Categorie
Tutti
Scarica qui i numeri completi della Rivista
|
Tutti i diritti sono riservati © Kinetès-Arte. Cultura. Ricerca. Impresa. 2016 |
|