di Francesca Castanò La disciplina della storia, entro la propria identità scientifica, si muove oggi nel tentativo di recuperare un ruolo attivo nella scena pubblica. L’obiettivo principale è instaurare un dialogo costruttivo con le politiche territoriali e promuovere procedure decisionali innovative per la circolazione dei saperi e ai fini delle scelte collettive. Le sfide ambientali, sociali, culturali possono essere affrontate con gli strumenti cognitivi tipici del sapere storico, stimolando l’esercizio del pensiero critico indispensabile a ottimizzare il circuito che procede dalla teoria alla pratica, dalla conoscenza all’azione. I territori dispongono ormai di una ricca letteratura che li ha indagati sotto molti profili, tanto per gli aspetti monumentali che per quelli ambientali e fisici, sebbene mai in maniera esaustiva e definitiva. Questa grande quantità di informazioni di cui le comunità dispongono, – talvolta senza neanche averne piena consapevolezza –, agevola il percorso di chi voglia farne la loro conoscenza, ma impedisce ancora di ricombinare i molti elementi già noti in letture e interpretazioni utilizzabili ai fini di un processo di effettivo rilancio. I valori dei luoghi, cosi come si sono venuti costruendo intorno ai temi essenziali della loro storia, consentono oggi di affrancarsi dalle politiche emergenziali o straordinarie, riscoprendo e alimentando la capacità di narrare il futuro. L’obiettivo di queste brevi riflessioni è porre in evidenza la particolare rilevanza che può assumere in quest’ottica l’indagine in chiave storico-ambientale del governo del territorio, ancor più se il livello considerato è quello locale e se l’attenzione si concentra ulteriormente su porzioni regionali caratterizzate da specifiche identità quali le aree interne[1]. Entro questo specifico ambito si coglie con maggiore evidenza la complementarità tra identità locali e modelli di produzione; tra usi antichi e prospettive di sostenibilità; istituzioni pubbliche e imprenditoria privata[2]. D’altro canto, in Italia in modo particolare, si tratta di territori caratterizzati oggi da un elevato grado di fragilità, in termini di spopolamento, quando non di abbandono, di mancate previsioni di sviluppo e di un crescente stato di isolamento. Tuttavia, allo stato attuale assistiamo a una rinnovata e più costruttiva riflessione sul tema di questa stessa fragilità, reinterpretata quale condizione non patologica bensì strutturale tanto delle persone fisiche, quanto delle comunità e dei territori, da ricondurre entro la prospettiva di un prezioso patrimonio connesso alle capacità e alle reti relazionali. Lo stato di crisi che investe la società contemporanea ha reso indispensabile connettere i fenomeni, affrontati in passato separatamente, individuando in chiave interdisciplinare i nodi di una più vasta rete di fragilità tra loro dialoganti. E questo al fine di disvelare le coscienze dei territori, evidenziarne i caratteri storici, promuovere l’inclusione dei saperi civici e delle abilità degli abitanti, costruire progetti di futuro condiviso e sostenibile. Nelle aree interne l’ambito comunale è riconducibile a una fisiologica dimensione comunitaria connotata da elementi naturali peculiari, quali colline, montagne, vaste aree produttive o di transito, che di fatto hanno reso storicamente indispensabile la cooperazione. Il paradigma collaborativo derivante dalle comuni radici storiche, fortemente connesso all’evoluzione dei processi produttivi e alla soluzione di problemi territoriali, si declina in impegno concreto per la cura dei beni comuni e del patrimonio culturale risvegliando nei cittadini un’intelligenza collettiva che li rende interlocutori attivi e competenti anche nei processi decisionali. Se un quadro rurale della “Campania felix”, ovvero la “Terra di Lavoro”, manca a tutt’oggi di analisi complessive di riferimento, una ragione è da ricercarsi nei controversi termini della sua storia antichissima e di una più recente geografia politica che ne ha riscritto i confini[3]. Come dire che essa è – con le parole di Galasso – «una creatura assai più della storia che della geografia»[4]. Questa felice campagna ha raggiunto la sua massima estensione occupando per un lungo periodo un terzo circa dell’intera Campania antica, inclusi il basso Lazio e parte del Molise. Solo nel corso del Novecento è stata ridotta alla sola provincia di Caserta. Un restringimento di confini territoriali che ha causato una perdita sostanziale di interi pezzi di territorio e della loro storia ricomposti in quadri culturali e sociali di contesti geografici differenti da quelli originari. La Terra di Lavoro ha attraversato molte modernità e ha conosciuto profonde mutazioni del suo entroterra fisico e culturale non necessariamente rintracciabili nell’attuale configurazione dei luoghi e nell’identità dispersa dei suoi abitanti; componenti queste ultime essenziali per un inquadramento dello spazio rurale. Le opere di bonifica dei Regi Lagni, avrebbero di fatto creato una nuova regione tra il fiume Volturno e l’antico Clanio irreggimentato, con effetti positivi sulla fertilità della terra, alimentando il mito della “Campania felix”[5]. Tuttavia la piena modernità giungerà nel XVIII secolo con la politica borbonica che trasformerà la Terra di Lavoro in un luogo di sperimentazioni e di conquista. Nella visione di Carlo le funzioni principali del Regno, da quelle direzionali a quelle di gestione del territorio, invece che insistere in area napoletana e vesuviana, erano da dislocare nell’entroterra casertano. La Reggia vanvitelliana diventa il fulcro di questa nuova riorganizzazione e tutto intorno entro la cornice dei siti reali si procede all’acquisizione delle preesistenze fondiarie e alla loro reinvenzione in un disegno di vasto respiro in cui le più tradizionali attività venatorie sarebbero state solo il movente per avviare sperimentazioni in campo agricolo e zootecnico[6]. Si tratta di una delle pagine più studiate e meglio analizzate anche in ambito storiografico, che ha messo in luce l’alto livello raggiunto dei programmi borbonici fino a evidenziarne accuratamente tutti i primati in tema di introduzione di nuove colture, di modernizzazione dei sistemi produttivi, di organizzazione fondiaria, di avvio di imprese industriali all’avanguardia. Anche il decennio francese contribuì largamente alla definizione di organi preposti alla gestione del territorio, in particolare con la Società di Agricoltura e le camere agrarie, trasformate negli anni della Restaurazione in vere e proprie Società economiche di Terra di Lavoro. Negli assetti postunitari la vocazione rurale e produttiva di questa regione e l’intera armatura territoriale realizzata nella secolare dominazione borbonica non subiranno profondi stravolgimenti e la Terra di Lavoro continuò a essere un luogo privilegiato dalla natura e molti certamente furono gli imprenditori che proseguirono le attività precedenti (come a esempio la famiglia Alois di San Leucio, i Catemario di Caserta, i Pacifico di Casolla) o ne attivarono di nuove[7]. Con la fine dell’Ottocento e l’avvio del nuovo secolo tuttavia anche la letteratura specialistica non appare sufficientemente interessata all’evoluzione di quel mondo rurale che pure era stato al centro degli interessi della stagione precedente, si privilegiano i grandi affreschi territoriali, si seguono le tracce e le sorti del patrimonio monumentale[8]. Si dovranno attendere le perlustrazioni dei geografi Mario Fondi, Luigi Pedreschi e Domenico Ruocco[9]. Essi, per mezzo del Centro di studi per la geografia etnologica diretto da Renato Biasutti, attraversano nuovamente negli anni Cinquanta la Terra di Lavoro, intanto ridottasi alla sola provincia di Caserta, e registrano, fotografano, documentano le abitazioni rurali dei luoghi più remoti dalla vasta pianura campana fino all’entroterra collinare e montano. Anche le ricerche analitiche e particolareggiate di Roberto Pane, avviate in anni precedenti con lo studio sulle case rurali e poi confluite nella grande mostra sulle regioni d’Italia nell’expo di Torino nel 1961 e nel mitico volume La Campania e l’albero, documentano con grande cura la vasta pianura e le colline casertane[10]. Solo in tempi più recenti i paradigmi della sostenibilità hanno posto nuovamente all’attenzione un quadro rurale in via di estinzione. Nelle politiche di sviluppo e nella gestione del territorio sta corrispondendo infatti un nuovo interesse storiografico verso le realtà marginali o minori delle aree interne, in cui sta emergendo un nuovo modello di cittadinanza attiva[11]. Luoghi remoti e talvolta dimenticati in grado ancora di esprimere e comunicare valori identitari, portatori di storie antichissime e di pratiche immortali, ma che talvolta rivelano inediti primati ancora tutti da mappare e da studiare. Reti invisibili di spazi e di saperi che hanno attraversato le molte modernità della storia senza mai essere veramente moderne, connesse tra loro e integrate all’ambiente naturale. Come nel caso di Ruviano, borgo di circa 1600 anime in provincia di Caserta, in cui gli enti locali e i cittadini stessi, in accordo con l’Università tentano di raccogliere tale sfida, ripartendo dalla storia dei processi produttivi che ne hanno caratterizzato la crescita nel corso dell’Ottocento[12]. Questo piccolo borgo si presenta paradigmatico, sia per le emergenze del suo centro storico ma anche per la vasta campagna produttiva circostante[13]. La sua storia millenaria è testimoniata da mura possenti, torri e una residenza fortificata a sua volta. L’età antica riaffora di tanto in tanto in una pietra marmorea, in un’epigrafe, in un lacerto musivo, in un frammento di colonne. In epoca medievale Ruviano è stato crocevia di culture e di pellegrinaggi, come confermato dal ciclo di affreschi ritrovati di recente nelle sale ipogee del castello. In epoca moderna si ridefiniscono i suoi assetti urbani, la rete infrastrutturale, l’ordito murario. Nella contemporaneità il borgo poi riscopre la ricca campagna che lo circonda e lo sfruttamento intelligente della terra, costruendo, impresa dopo impresa, il paesaggio produttivo che è ancora oggi ne testimonia l’importanza. Integralmente ristrutturato, grazie a un finanziamento europeo, ha avviato un’azione di rilancio di tutto il comparto agricolo, riorganizzando la rete di servizi ai cittadini, potenziando le infrastrutture fisiche e digitali e coinvolgendo in tale processo tutta la comunità di cittadini. Intorno alle molte masserie presenti nel territorio nuove attività fioriscono, recuperando le antiche coltivazioni e promuovendo una filiera produttiva virtuosa che raggiunge i mercati internazionali. Una cooperazione a rete tra enti pubblici e privati che incarna in pieno, pur entro i margini di una realtà minore, il modello di sviluppo sostenibile come definito sin dal 1987 da rapporto Brundtland: «Humanity has the ability to make development sustainable to ensure that it meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs»[14] (Borowy 2014). [1] Borghi E. (2017), Piccole Italie. Le aree interne e la questione territoriale; Donzelli, Milano. [2] Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino. [3] Musi A. (2006), Storia sociale e politica: la regione della capitale, in Enzo Giustino, (a cura di), La Campania. Le radici e il domani, Guida, Napoli. [4] Galasso G. (1978), Storicità della struttura regionale, in F. Barbagallo, (a cura di), Storia della Campania, I, Guida, Napoli, p. 10. [5] Musi A. (1985) La strada dalla città al territorio: la riorganizzazione spaziale del Regno di Napoli nel Cinquecento, in C. De Seta, a cura di, Insediamenti e Territorio, Storia d’Italia, Annali, vol.8, pp. 243-285, Torino, Giulio Einaudi. [6] Per un approfondimento per questi temi con relativa bibliografia si veda Castanò F. (2014), «Un'altra città nella campagna». I siti reali in Terra di Lavoro da luoghi strategici a spazi per la produzione, in L. d'Alessandro, F. Labrador Arroyo, P. Rossi (a cura di), Siti reali in Europa. Una storia del territorio tra Madrid e Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli, pp. 238-255. [7] Castanò F. (2018), All’ombra di Casertavecchia: palazzi e collère nel tessuto urbano di Casolla, in R. Parisi, A. Ciuffetti (a cura di), Paesaggi italiani della protoindustria. Luoghi e processi della produzione dalla storia al recupero, Carocci editore, Roma, pp. 193-2014; Eadem, D’errico G. (2018), Il Polo Scientifico di Caserta. l’ex tabacchificio Enrico Catemario, in G. Amirante, R. Cioffi, G. Pignatelli (a cura di), Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli, Giannini Editore, Napoli, pp. 160-167. [8]Salvatore Di Giacomo stesso pubblicherà una guida esemplare di tutte le emergenze monumentali lungo lo storico itinerario da Capua a Caserta). Di Giacomo S. (1924), Da Capua a Caserta, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo. [9] Pedreschi L. (1964), La casa rurale nella provincia di Caserta, in M. Fondi et al. (a cura di ), La casa rurale nella Campania, Olschki, Firenze, pp. 23-110. [10] Frallicciardi A.M.(2003), Tipologie dello spazio rurale in Campania: un’analisi preliminare, in G. Calafiore, C. Palagiano, E. Paratore (a cura di),Vecchi territori, nuovi mondi: la geografia nelle emergenze del 2000, Atti del XXVIII Congresso Geografico Italiano (Roma 18-22 giugno 2000), vol. II, Edigeo, s.l., pp. 1508-1519. [11] Senatore G. (2013) Storia della sostenibilità. Dai limiti della crescita alla genesi dello sviluppo, Franco Angeli, Milano. [12] Attenti studi su storici su Ruviano sono compiuti da Russo M. (1996), Ruviano olim Raiano tra storia e tradizione, Fausto Fiorentino, Napoli; Idem (1997), Aspetti della civiltà contadina nel caitaino. Insediamenti umani ed economia rurale, s.e., Napoli; [13] Magnaghi A., a cura di, (2007), Scenari strategici: visioni identitarie per il progetto del territorio, Alinea Editrice, Firenze. [14] Borowy i. (2014), Defining Sustainable Development: the World Commission on Environment and Development (Brundtland Commission), earthscan/Routledge, Milton Park.
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