di Aglaia McClintock La Via Appia, la regina viarum, in primo luogo ci costringe a visualizzare il paesaggio che essa struttura. In un celebre capitolo di Notre-Dame de Paris, “Questo ucciderà quello” (“Il libro ucciderà l’edificio”, “La stampa ucciderà la Chiesa”, “La tipografia ucciderà l’architettura”) Victor Hugo faceva osservare che l’architettura è stata la prima grande scrittura dell’umanità, dai dolmen, alle piramidi, ai templi, alle cattedrali gotiche. Sino al XV secolo e alla scoperta della stampa, l’architettura è stata il grande libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo attraverso i diversi stadi di sviluppo, sia come forza, sia come intelligenza. I monumenti di pietra sono il modo più naturale e duraturo per “iscrivere nel suolo” la memoria, quando “la parola, nuda e instabile” rischierebbe di perdersi lungo il cammino. Per Victor Hugo: “[sino a Gutenberg] non è apparso al mondo un pensiero un poco complesso che non si sia espresso in un edificio, di modo che ogni idea popolare come ogni legge religiosa ha avuto i suoi monumenti: insomma, il genere umano non ha mai pensato nulla di importante senza trascriverlo nella pietra. E perché? Perché ogni pensiero, sia religioso, sia filosofico, ha interesse a perpetuarsi; perché l’idea che ha smosso una generazione vuole smuoverne altre e lasciare traccia di sé. Ora come è precaria l’immortalità promessa da un manoscritto! E quanto invece è solida, duratura, resistente quella affidata a un edificio! Per distruggere la parola scritta, basta una torcia e un turco. Per distruggere la parola costruita, occorre una rivoluzione sociale o uno sconvolgimento tellurico… I barbari sono passati sul Colosseo; il diluvio, forse sulle Piramidi” [1]. La Via Appia in quest’ottica dovrebbe essere letta come espressione del pensiero del tempo. Purtroppo, come scrive Paolo Rumiz nel romanzo Appia, con parole vere quanto dolorose, l’abusivismo edilizio ha cancellato la strada con esiti più devastanti della lotta alle immagini dell’Isis o dei Talebani: la decapitazione dei Buddha nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan in Afghanistan, o la distruzione delle statue e dei colonnati di Palmira in Siria [2]. Eppure la grande direttrice resta per larghi tratti in piedi. Paolo Rumiz tra i suoi tanti meriti ha quello di averne riportato alla luce l’itinerario in un lungo viaggio a piedi. Lo scrittore non ha guardato solo ai numerosi monumenti che sono posti lungo la via, ha reso la strada stessa un monumentum, inteso sia come “oggetto” concreto, come “scrittura” concreta”, sia come oggetto che “suscita memoria” (moneo faccio ricordare). Monumento particolare, perché non “statico”, insediato in un unico posto per quanto grande, ma “dinamico” come un fiume che mette in contatto tra loro culture diverse: la romana, l’osca, la sannita, la greca. I Romani, come è noto, giunsero ben più tardi dei Greci a una propria letteratura o una produzione figurativa che potesse dirsi autonoma. Ma negli stessi tempi in cui in Grecia fiorivano filosofia e poesia, i Romani elaborarono sofisticate, differenziate norme giuridiche che nel bene o nel male (a seconda di come si voglia guardare alla loro eredità) permangono negli odierni sistemi di diritto. Contemporaneamente costruirono, archi, reti stradali e acquedotti, avamposti della loro futura espansione. Proviamo a riprendere le parole di Victor Hugo e a considerare la Via Appia nell’ottica dell’alfabeto di pietra. Che cosa ci racconta? Quale pensiero romano esprime? Quale pensiero degno di memoria (moneo)? La prima risposta è che la strada costituisse un’infrastruttura adibita a fini militari e commerciali. Ciò è innegabile. Interpretandola in senso unicamente pratico, forse non sbaglieremmo. Eppure, vi è anche un’altra lettura possibile. La via non era finalizzata soltanto all’espansionismo militare e commerciale: apriva Roma verso gli altri popoli. Lungo l’Appia popoli con tradizioni differenti non furono più isolati. L’Appia esprime nel suo più alto grado l’apertura romana verso l’altro e verso il futuro [3], la possibilità di entrare in relazioni di contatto e scambio con civiltà diverse, avvalendosi dell’altro grande ‘monumento’ romano: il ius, quell’insieme di norme che nessun’altra società antica è stata in grado di elevare a scienza. Il diritto romano è prima di tutto diritto dei privati. Una sua grande parte vitale si è sviluppata e accresciuta nell’incontro con altre popolazioni, con gli stranieri. L’incontro con gli stranieri è maturato attraverso la “via”, la “lingua”, il “diritto”. Non è un caso che un momento fondamentale nella storia del diritto, la rottura del monopolio pontificale sul sapere giuridico, sia riconducibile allo stesso Appio Claudio[4]. Egli aveva raccolto in alcuni libri i formulari necessari per agire in giudizio. Nell’antico processo sbagliare anche una sola parola comportava la perdita della lite. L’aiuto e la consulenza dei pontefici era fondamentale per intentare una causa e per avere speranze di vincerla. E infatti il collegio pontificale saldamente custodiva il sapere giuridico [5] (frutto dell’interpretazioni delle XII Tavole). Ma ancor prima la loro consulenza era necessaria per conoscere in quali giorni fosse possibile chiedere giustizia [6]. Come è noto si poteva agire solo nei giorni fasti. La leggenda dice che Gneo Flavio, scriba e segretario particolare di Appio Claudio, rubò questi libri dall’archivio [7] e li rese pubblici insieme al calendario giudiziario [8]. Sino a quel momento il sapere giuridico era stato un sapere specializzato e segreto di fatto inaccessibile al popolo. Gneo – è lecito credere per ordine dello stesso Claudio – aveva consegnato così ai Romani, la possibilità di un diritto, accessibile a un maggiore numero di persone, e quindi un nuovo diritto [9]. La Via fece sì che anche gli stranieri ebbero la possibilità di utilizzare il diritto romano. Nel 242 a.C. le cause fra stranieri e Romani o anche solo fra stranieri divennero tante che si sentì l’esigenza di istituire una nuova magistratura ad hoc per risolvere queste controversie: il praetor peregrinus. E con la pubblicazione del calendario, per usare le belle parole di M.Th. Fögen, “Agere è il termine tecnico per agire in giudizio, e i sacerdoti, tenendo segreta proprio l’agenda che fissava le date per esperire le azioni, tennero segreto il futuro sociale, quando agire, pagare adempiere … Il diritto non può assorbire tutti i rischi e gli imponderabili della vita, non può impedire le calamità naturali e la guerra … Ma può tutelare determinate attese … Quando Gneo Flavio rubò il calendario, furono resi noti i giorni giudiziari. Divenne disponibile il futuro che si struttura mediante il diritto” [10]. Novello Prometeo [11], Gneo aveva rubato il diritto e il tempo ai sacerdoti consegnandolo al popolo. Spezzò il segreto e, contrariamente a quanto accade nella storia leggendaria di Roma in cui nessuna trasgressione resta impunita, ottenne onori che non erano mai stati tributati al figlio di un liberto. Fu edile curule e dedicò il tempio della Concordia sul Foro (una pratica che potevano fare solo i pontefici) [12]. Ma le imprese di Appio non si esauriscono qui. Chiamato Centemmanus, Centimano, come uno dei Titani, Giganti dalle cento mani portò a compimento un numero straordinario di imprese. Se leggiamo nel lunghissimo frammento di Pomponio sulla storia della giurisprudenza romana, tràdito dei Digesta giustinianei: Appio Claudio, chiamato “Centemmano”, lastricò la via Appia, portò in città l’acqua Claudia e sostenne il parere di non ammettere Pirro nell’Urbe, per primo, mise per iscritto una monografia giuridica Sulle interruzioni dell’usucapione (libro andato perduto), e non ultimo introdusse la lettera ‘R’ intervocalica, di modo che in luogo di ‘Valesii’, si passò a ‘Valerii’, e in luogo di ‘Fusii’ si passò a ‘Furii’ [13]. Per riassumere con Appio Claudio Cieco “dalle cento mani” si avrebbe: l’inizio della letteratura scritta (orazione contro Pirro) e della letteratura giuridica (Sulle interruzioni delle usucapioni); la costruzione di un acquedotto strategico per Roma; la costruzione della Via Appia da Roma a Capua; il rivoluzionamento dell’alfabeto con l’introduzione di un nuovo segno per un suono probabilmente già invalso; e, come abbiamo visto, la rottura del monopolio sacerdotale sul diritto. E praticamente coeva alla costruzione della Via Appia è l’introduzione della moneta a Roma. Saremmo tentati di dire che almeno la moneta non l’ha introdotta Appio Claudio! Ma sicuramente il commercio con le colonie greche del sud spinse Roma a coniare le prime monete battute proprio in Campania. La costruzione delle grandi opere pubbliche e gli scambi economici con nuovi popoli muovono grandi quantità di danaro. E il danaro produce non da ultimo mobilità sociale e il sorgere di nuove ricchezze, nuove forze politiche. E mutamenti nella stessa struttura sociale, maggiori possibilità per i figli di famiglia soggetti al pater, e persino per gli schiavi che avessero la gestione di un piccolo patrimonio [14]. Forzando forse la mano potremmo guardare alla Via Appia come al monumento in pietra della visione romana. La strada, la via, apre alle altre civiltà, all’altro, a quello che diventerà il primo e vero impero multietnico della storia, nei territori di quella che oggi chiamiamo Europa. * Testo pronunziato in occasione della manifestazione del 23 settembre 2017 in cui Paolo Rumiz è ritornato al Ponte Appiano, nell’area ripulita e illuminata grazie a un protocollo di intesa tra i Comuni di Calvi, Venticano, San Giorgio del Sannio, Ceppaloni e Apollosa – che condividono il tratto sannitico-irpino della via Appia. La manifestazione è stata organizzata da Giuseppe Mastrominico e dalla Gesualdo Edizioni. [1] V. Hugo, Notre-Dame de Paris, traduzione di C. Lusignoli, Torino 1997, pp. 187-199, citazione pp. 193-194. [2] P. Rumiz, Appia, Milano 2016, pp. 102-104. Sul Ponte Appiano scrive, p. 153: “È la tappa dei grandi ponti crollati. I ponti sono la prima cosa che le guerre si portano via. Tra Montesarchio e Benevento, i tedeschi in ritirata nel ’43 ne fecero saltare parecchi, di cui tre romani, tutti sull’Appia Antica. Si chiamavano Tufara, Apollosa e Corvo, ed erano lì da duemila anni. Non fosse per la sterpaglia e i canneti, i loro nobilissimi resti sarebbero ancora ben visibili. Non ci vorrebbe niente a dar loro una ripulita, ma anche qui la gente sembra aver dimenticato che in quelle magnifiche arcate spesso si nascondono gli dèi del luogo. I Sanniti di oggi non si rendono conto di abitare in un’Arcadia forse più bella di quella greca, e non si preoccupavano della manutenzione delle vecchie pietre”. Le parole e il cammino di Rumiz lungo la via Appia hanno creato un movimento di pensiero che ha portato la popolazione civile e le istituzioni locali a rioccuparsi del Ponte Appiano. [3] L’apertura verso l’altro e verso gli altri è già presente nel mito che narra l’origine di Roma. Il suolo di fondazione della città è descritto come una fossa circolare in cui vengono gettati, oltre ai più significativi prodotti della cultura e della natura, zolle tratte dalle rispettive terre d’origine degli uomini che si sono uniti a Romolo. Come scrive M. Bettini, Dèi e uomini nella città. Antropologia, religione, cultura nella Roma antica, Roma 2015, p. 23, tale mito, che mescola fra loro uomini da un lato, zolle di terra dall’altro, in un parallelismo perfetto “mette in evidenza uno dei caratteri principali della cultura romana: l’apertura”. Per il filosofo francese Remi Brauge, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Milano 2005 (ed. or. Paris 1992), i Romani hanno inventato un modello culturale eccentrico “l’attitudine cioè di saper ricevere e trasmettere, del trovare ciò che è ‘altro’ o ‘straniero’. In questo senso la ‘romanità’ più che costituire direttamente un’identità, indicherebbe la speciale attitudine obliqua che consente di formarla nell’apertura all’altro”. [4] Informazioni sulle cariche rivestite da Appio sono riportate da numerose fonti letterarie (questore nel 316 a.C.?, edile curule nel 313? e nel 305?, censore nel 312, console nel 307 e nel 296, pretore nel 297? e nel 295; interré nel 298, dittatore nel 285?, T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, Cleveland 1968, vol.I). Una iscrizione (CIL. 12.1, p. 192, n 10 = CIL. 11.1827 = ILS. 54) rinvenuta ad Arezzo sintetizza solo alcuni delle sue imprese tra cui spicca la costruzione della Via Appia e dell’acquedotto che porto l’acqua a Roma [Fig. 00]. Sulla figura di Appio cfr. M. Humm, Appius Claudius Caecus: la république accomplie, Rome 2005, disponibile online https://books. openedition.org/efr/1581?lang=it; A. McClintock, s.v. “Appius Claudius Caecus and Roman law”, in The Encyclopedia of Ancient History, Wiley Online Library 2019, pp. 1-3 Da ultimo cfr. Appius Claudius Caecus (cos. 307), in A. Bottiglieri, A. Manzo, F. Nasti e G. Viarengo (cur.), V. Marotta e E. Stolfi (praefatores), Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C., «Scriptores Iuris Romani, 3», Roma 2019, pp. 91-135. [5] Cfr. F. D’IPPOLITO, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma 1986. [6] Sulla complessa questione di che genere di pubblicazione o riforma avrebbe operato Gneo Flavio cfr. J. Rüpke, The Roman calendar from Numa to Constantine: time, history and the Fasti, trans. D.M.B. Richardson, Chichester 2011, pp. 44-67. [7] Sul tema cfr. da ultimo A. MCCLINTOCK, Gneo Flavio, lo scriba che rubò il diritto, in Storia mitica del diritto romano, Bologna 2020, pp. 215-237. [8] Vi sono più versioni dell’episodio: Plin. NH 33.17-20 (Ann. Pont., fr. 28 Chassignet = Plin. NH 33.18); Gell. N.A. 7. 9. 2-6. (Calp. Pis., fr. 27 P. = 37 F. = 30 Chassignet = 7.9.1-6); Cic. Pro Murena 25; Liv. 9.46.1; Nepotian. 2.5.2. [9] D. 1.2.2.7, Pomp. l. sing. ench.: Postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam redegisset has actiones, Gnaeus Flavius scriba eius libertini filius subreptum librum populo tradidit, et adeo gratum fuit id munus populo, ut tribunus plebis fieret et senator et aedilis curulis. Hic liber, qui actiones continet, appellatur ius civile Flavianum, sicut ille ius civile Papirianum: nam nec Gnaeus Flavius de suo quicquam adiecit libro. Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.eccentrico “ [10] M.Th. FÖGEN, Storie del diritto romano, trad. di A. MAZZACANE, Bologna 2005, p. 124. [11] Non lo considerava tale il grande storico del diritto F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, Glasgow-London, 1963, p. 10, che negava la veridicità dell’episodio. [12] Plin. N.H. 33.19: Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et, cum ad id pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis aediculam aerea fecit in Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolinam dedicatam. [13] D.1.2.2.36, Pomp. l. sing. Ench.: Fuit autem in primis peritus Publius Papirius, qui leges regias in unum contulit. Ab hoc Appius Claudius unus ex decemviris, cuius maximum consilium in duodecim tabulis scribendis fuit. Post hunc Appius Claudius eiusdem generis maximam scientiam habuit: hic Centemmanus appellatus est, Appiam viam stravit et aquam Claudiam induxit et de Pyrrho in urbe non recipiendo sententiam tulit: hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber non exstat: idem Appius Claudius R litteram invenit videturque ab hoc processisse, ut pro Valesiis Valerii essent et pro Fusiis Furii. [14] M.Th. FÖGEN, l.u.c.
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