La Statua Santucci del Museo civico di Morcone. Attestazione di un culto bacchico nell’Alto Tammaro30/1/2023
di Pasquale Marino Presso il Museo Civico di Morcone, che ha sede nel complesso di Casa Sannia, è conservata una statua antropomorfa di epoca romana (Fig. 1 a, b, c). Fino a questo momento, la statua non è stata oggetto di studi particolareggiati. Pertanto, di questo reperto archeologico non sono certi né il soggetto né il contesto di appartenenza. Si conosce solo la località di ritrovamento: presso Case Santucci, nel territorio di Morcone. Per tale ragione, si propone di identificare il reperto come Statua Santucci, definizione neutra rispetto a qualunque ipotesi identificativa e di funzione. Attualmente, la statua è esposta in uno spazio, poco funzionale, di Casa Sannia. È collocata, infatti, su un pianerottolo di copertura delle scale di accesso al primo piano dell’edificio. È osservabile in modo agevole da una sola angolazione, quella del suo lato sinistro. Risulta rialzata rispetto al piano di calpestio dell’osservatore di oltre un metro e, purtroppo, appare schiacciata dalla poca “aria” tra il manufatto e il solaio sovrastante (Fig. 2). Il manufatto è attualmente imperniato su un supporto litico, probabilmente un basalto, di colore grigio chiaro. Questo basso piedistallo è realizzato con la giustapposizione di due parallelepipedi (60,5-lung. x 15-larg. x 30-h cm) tra i quali sono inseriti i perni che sostengono il manufatto archeologico. Il “rialzo” è posizionato col suo lato lungo in asse con i fianchi della statua.[1] Sul lato anteriore, rispetto alla statua, si vedono le coperture delle viti di blocco dei perni. Si suppone che il blocco statua-piedistallo non sia agganciato in alcun modo al piano pavimentale (Fig. 3 e 4). Si suppone che questa imperniatura risalga agli anni Ottanta del XX secolo, epoca in cui la Statua Santucci fu collocata nell’edificio di Casa Sannia. Come, anche, si presuppone che l’imperniatura attuale sfrutti i fori già praticati in antico, per la medesima funzione, ipotesi che non si è potuta verificare in quanto presuppone lo smontaggio della struttura. Il cartellino identificativo del Museo riporta i seguenti dati a proposito del reperto: SEZIONE ARCHEOLOGIA STATUA MULIEBRE ACEFALA PANNEGGIATA CON CORNUCOPIA probabile rappresentazione della Tyche o Fortuna di Antiochia Inv.: SEZ. ARCH. ST. Mu. 2/188048_28 Datazione: II sec. d. C. Provenienza: Contrada Santucci (Morcone) 1880 circa Si tratta di scarne informazioni dovute all’assenza documentativa delle circostanze del rinvenimento. Come pure non è stato possibile reperire informazioni sulla sistemazione del reperto nelle epoche successive alla “scoperta”. Sembrerebbe che il reperto sia rimasto, per circa un’ottantina di anni, collocato presso il gruppo di case note come Case (o Masserie) Santucci. Non è dato sapere, al momento, se la statua fosse esposta o riparata in qualche struttura. Questo fino a circa gli anni Sessanta del XX secolo, quando trovò sistemazione in un annesso del Convento dei Frati Francescani Cappuccini di Morcone. Successivamente, negli anni Ottanta, la statua trovò la sistemazione attuale. Un’analisi descrittiva, maggiormente particolareggiata rispetto a quella avuta finora, della Statua Santucci è sicuramente necessaria. Come sarebbero auspicabili tutti gli esami archeometrici funzionali a determinare la corretta determinazione del materiale litico con cui è realizzata; nonché, la determinazione della sua provenienza. Solo in questo modo si potrebbe sopperire, solo leggermente e in parte, all’assenza di documentazione del contesto di ritrovamento. Altrimenti, come per tutti i reperti decontestualizzati, il rischio di aprire ancora più problematiche di quante non se ne possano chiarire è decisamente elevato. Descrizione della Statua Santucci Colpisce il buon materiale in cui è realizzata e la buona tecnica esecutiva. Queste due caratteristiche ne fanno “un unico”, particolarmente prezioso per tutta l’area dell’Alto Tammaro beneventano (Fig. 5 a, b). La statua rappresenta un soggetto antropomorfo. La figura è “panneggiata” con una tunica. Si riconosce una lunga veste, piuttosto leggera e, in alcune parti, alquanto aderente ai volumi del corpo, mentre, in altre, le abbondanti pieghe scendono a coprire l’anatomia del soggetto rappresentato (Fig. 6 a, b). La Statua è realizzata in materiale litico di colore bianco-rosato con leggere venature grigiastre. Si tratta, dal punto di vista comune, di un marmo e tale doveva essere inteso in antico (Fig. 7 a, b). Esami fisici e chimici sarebbero necessari per l’attribuzione scientifica alla categoria dei marmi. Essa è mancante della testa, cosa che limita la possibilità di identificare con maggior certezza il soggetto rappresentato. Presenta un’ampia e profonda lacuna all’altezza del braccio destro. L’arto è comunque riconoscibile lungo il suo lato posteriore (Fig. 8 a, b). Le pieghe della veste sono piuttosto profonde e in qualche caso presentano anche leggeri “sottosquadri” che alleggeriscono e danno movimento ai volumi della figura (Fig. 9 a, b, c). Sulla superficie del manufatto si possono riscontrare lacune, scheggiature o abrasioni di varie entità. Nei punti in cui il manufatto è integro, appare ricoperto da una leggera patina giallastra. La patina non appare nelle fratture del collo e del braccio destro, mentre, una lunga striscia, larga circa 2 /2,5 cm, di color rosso ruggine parte dalla clavicola destra e si prolunga, scendendo linearmente fino alla parte prossimale dell’avambraccio destro. Potrebbe essere la conseguenza del contatto prolungato con un listello ferroso. Meno probabile, ma comunque da verificare, è che si possa trattare di una “venatura cromatica”, presente nel materiale lavorato[2] (Fig. 10 a, b). Inoltre, a una osservazione ravvicinata, la superficie della statua presenta tracce di polvere, concrezioni calcaree e chiazze di patina biologica. Quest’ultima è costituita anche da muffa, presente soprattutto all’interno dei risvolti delle pieghe del panneggio. La Statua Santucci, nella sua collocazione attuale, si può osservare a tutto tondo con una certa difficoltà. Se osservata sul suo lato sinistro, essa appare leggermente affusolata; leggermente schiacciata nel suo spessore, se osservata lateralmente (Fig. 11). Questo effetto è molto attenuato se si osserva la statua sul suo lato destro, lato dal quale, però, appare molto più dinamica (Fig. 12 a, b). La Statua è movimentata dall’atteggiamento appena incedente della coscia destra e dal movimento in avanti del braccio destro, appena accennato. Quest’ultimo discende appena leggermente piegato lungo il busto e termina con la mano chiusa, aderendo alla coscia, nell’atto di sollevare leggermente la tunica, per evitare al soggetto di inciampare nella stoffa (Fig. 13 a, b, c, d). L’avambraccio sinistro è piegato verso il costato e aderente al corpo. La mano sinistra doveva essere coperta dal panneggio della veste e sostenere elementi vegetali posti tra l’avambraccio e il pettorale sinistro. L’identificazione di questo elemento è molto problematica a causa di una lacuna che ha cancellato il volume della mano e parte di quello che doveva essere l’elemento vegetale. Quest’ultimo doveva costituire l’attributo identificativo della statua. Non sembra si possa identificare, in quel punto, la sagoma di un contenitore (Fig. 14 a, b, c, d, e, f). Il soggetto rappresentato indossa un’ampia tunica di tessuto leggero, che risulta piuttosto aderente sul lato destro della figura, dove sono messe in evidenza le forme anatomiche, quasi a voler riprodurre l’effetto di un “panneggio bagnato”. Mentre sul lato sinistro della figura stessa, ampi risvolti pendenti, tendono a nascondere i particolari anatomici (Fig. 15 a, b – 16 a, b). Il panneggio scende verso la base della figura, restringendosi verso i suoi piedi. Questi ultimi appaiono interamente nascosti dal panneggio pendente. La base della statua, nel suo lato anteriore, è abbastanza uniforme e sembra aderire piuttosto bene al piedistallo (Fig. 17), mentre il lato posteriore presenta delle “stuccature”, probabilmente in gesso, che integrano dei vuoti non aderenti alla linearità della base. Si tratta di vuoti di “incasso” realizzati in antico; non è escluso, però, possa trattarsi di “negativi” presenti sul reperto per altre funzioni (Fig. 18 a , b). Due “incassi” arcuati si notano alla base posteriore della statua. Essi risultano attualmente riempiti di stucco bianco.[3] Si tratta, probabilmente, di fori per grappe di ancoraggio. Al momento, questa ipotesi non è verificabile. Invece, almeno un altro incasso verticale aperto sembra si possa distinguere alla base sinistra della statua. L’incasso è ricavato nel panneggio che scende dalla spalla sinistra e misura circa 25 cm di lunghezza. Si può ipotizzare che servisse ad ancorare un altro oggetto a tutto tondo o un pannello. In quest’incasso si nota la presenza di una patina bruna, molto differente da quella giallastra riscontrabile in alcune parti della statua (Fig. 19 a, b). Nella zona centrale della figura, al di sotto dell’ombelico, l’aderenza della sottile veste fa risaltare l’attributo virile. Il che, naturalmente, qualifica la Statua come rappresentazione di un soggetto maschile[4] (Fig. 20 a, b, - 21 a, b). Sempre anteriormente alla figura, nella parte superiore del busto, incorniciate da leggere pieghe, si notano i boccoli lunghi e arricciati di una barba lunga e leggermente appiattita. Su entrambi i lati della barba stessa, si notano due fettucce scendere fino all’altezza dei capezzoli della figura. Si tratta probabilmente di strisce di stoffa o di due stringhe di cuoio che dovevano provenire dalla parte posteriore della testa. Esse dovrebbero costituire gli estremi di una mitra[5] ricadenti sui pettorali (Fig. 22 a, b, c). Sul lato posteriore sinistro, la statua si caratterizza per una certa linearità verticale del panneggio. La stoffa copre la spalla e il braccio sinistro e ricade verticalmente dando volume e “sostegno” alla figura (Fig. 23). All’altezza delle vertebre cervicali si nota, benché danneggiato, quello che potrebbe essere una sorta di chignon basso. A questo elemento sembrano raccordarsi le due fettucce che ricadono sui pettorali (Fig. 24 a, b, c, d). Il lato posteriore destro si caratterizza per una maggiore evidenza delle forme anatomiche, sottolineate dal panneggio aderente, quasi ad effetto bagnato, sulla coscia destra e i glutei (Fig. 25 a, b, c). Superiormente il braccio emerge dal foro della tunica. La mano destra, nell’atto di sollevare la tunica per consentire al soggetto di incedere, è piuttosto consunta e conserva poca definizione. L’avambraccio è ben leggibile, mentre la parte omerale è mancante a causa di un’importante lacuna. Tuttavia, lo sviluppo e la posizione dell’arto sono ben visibili. La lacuna del braccio destro ha interessato anche in parte il pettorale destro (fig. 26 a, b). Misure della Statua Santucci Misurazioni dirette sono state effettuate sul reperto, nel luogo dell’esposizione. Esse sono state eseguite con fettuccia metallica e metro a stecca. Non sono state effettuate movimentazioni della Statua, avendo cura di toccarla il meno possibile. Le lacune presenti in alcuni punti e la “imperniatura” attuale possono aver condizionato in piccola parte le misurazioni, sia pur in modo non determinante. La seguente tabella esemplifica i dati essenziali: La Statua Santucci misura 120 cm di altezza. Come detto è mutila della testa. In base ai criteri artistici antichi si è ritenuto di poter ipotizzare l’altezza originaria del manufatto in 133 cm circa, aggiungendo al “moncone” attuale circa 17 cm per l’altezza della testa. Questa ipotesi è stata formulata tenendo presenti alcuni canoni artistici comunemente accettati in antico. Questi canoni vedrebbero l’altezza della testa umana in rapporto di 1/8 rispetto al resto del corpo. In base a questi canoni si è potuto ipotizzare che la statua possa riprodurre un soggetto di altezza “ideale” ridotto in scala di ¼ (Fig. 27), dando per assodato che l’altezza di riferimento di un individuo maschio adulto, in antico, fosse accettata di circa 178 cm. Questi rapporti antropometrici, ideali per quanto si vuole, ebbero ampia diffusione in antico e trovano la loro espressione principale nel cosiddetto Canone di Policleto. In questo caso, è risultato utile provare a ragionare con le misure in piede romano. Luogo del ritrovamento della Statua Santucci, prime notizie e ipotesi di identificazione Il primo a dare notizia scritta della Statua Santucci, attualmente conservata negli ambienti di Casa Sannia a Morcone (n° inv. 188048), fu Giuseppe Plensio, nel 1978.[6] La statua fu probabilmente rinvenuta mutila, così come attualmente conservata. Purtroppo, non viene indicata la data precisa né la circostanza esatta del rinvenimento. L’elenco dei reperti in possesso del deposito comunale, indica il 1880[7] come anno della scoperta. Pertanto, si può supporre che è almeno attorno a questa data l’epoca in cui il reperto è venuto ad essere “conosciuto”. Con buona probabilità, la scoperta avvenne a seguito di lavori pubblici effettuati nell’area. Il Plensio indica genericamente come zona del ritrovamento la località Canepino. Lo stesso autore specifica che il ritrovamento era avvenuto in prossimità delle Masserie Santucci.[8] Queste ultime sono situate in località Piano Viola[9], località posta tra la destra del torrente denominato Rio Freddo e il lato sinistro del fiume Tammaro. Sempre il Plensio dice che il manufatto è conservato nell’antiquariato[10] dei Padri Cappuccini di Morcone. Frate Plensio identifica la statua con la rappresentazione della dea Cerere e vi coglie la rappresentazione di una divinità di ambito agreste, mentre si lascia condizionare dalla presenza di un abito femminile, in modo tale da dover, necessariamente, attribuire la rappresentazione a una Dea. Con riferimento alla materia del manufatto, il Plensio parla di “statua marmorea”. L’identificazione operata da Frate Plensio è stata ripetuta negli anni successivi, seppur con varianti delle divinità femminili a cui di volta in volta è stata attribuita la Statua. Una volta “emersa”, la statua deve essere stata collocata in qualche riparo o nelle adiacenze di qualche edificio nelle vicinanze. Il reperto fu osservato dai frati Cappuccini negli anni Cinquanta/Sessanta del XX secolo e successivamente portato al Convento dei Frati Francescani Cappuccini di Morcone.[11] Non è stato possibile ricostruire, al momento, a seguito di quale decisione il reperto sia giunto nel “deposito comunale” (attuale Casa Sannia). La notizia data dal Plensio fu ripresa nel 1991 dal De Benedittis in un suo articolo sull’Alta Valle del Tammaro.[12] In quel contributo non vennero aggiunti nuovi particolari sulla Statua Santucci. Però al reperto statuario fu attribuita pertinenza a un “monumento funerario” non individuato, il quale doveva essere collegato a una villa rustica da ricercare nell’area.[13] La statua è descritta genericamente come “panneggiata” ed è detta “realizzata in pietra”. La Carta Archeologica di Morcone[14] riporta il ritrovamento, desumendo dalle pubblicazioni citate del Plensio e del De Benedittis. Il sito di ritrovamento è indicato nella carta Archeologica come B24 e viene collocato presso Masserie Santucci, in maniera “puntuale”.[15] Inoltre, il sito è indicato come attestazione di un sepolcro, sempre di epoca romana.[16] In campi adiacenti dell’area del ritrovamento sono stati riscontrati materiali romani sparsi: sito B25.[17] Inoltre, la Carta propone l’identificazione della statua con una rappresentazione della dea Fortuna o Tyche. Ripropone, ancora, la destinazione funeraria del manufatto, così come proposto da De Benedittis. La statua è definita, sempre “muliebre” e viene indicata come realizzata in “pietra”. Anche la datazione proposta del manufatto è quella indicata dallo stesso studioso: di una generica “età romana”. Il cartellino del Museo Civico che accompagna la Statua Santucci indica il II sec. d.C. come datazione del manufatto. Non è stato possibile risalire a chi ha effettuato questa datazione; né è stato possibile risalire a chi l’ha proposta. Ci sembra utile riportare alcune notizie che riguardano le conoscenze archeologiche dell’area in cui fu rinvenuta la Statua Santucci. Bisogna dire che, in adiacenza delle stesse Masserie Santucci, la Carta archeologica ha identificato altre tre siti: il n28, n29 e il n30 (TAVOLA I).[18] Si tratta di tre siti testimoniati da spargimenti di materiali, che vanno da epoca preistorica, a quella medievale; molti dei quali indicati da materiali in cumuli di risulta, così come indicato nella descrizione dei siti. A valle di Masseria Fontana, verso il corso del Tammaro, è stata identificata un’ampia e ricca area di affioramenti di materiali da costruzione e di frammenti ceramici di differenti tipologie. Il sito è stato interpretato come costituito da resti di una villa rustica di epoca romana, distante circa 1500 m da Masserie Santucci. La Carta Archeologica segnala la presenza di questo insediamento romano al sito n31, (TAVOLA I).[19] Pertanto, è possibile ipotizzare che i siti n28 e n30 della Carta Archeologica possano essere in qualche modo legati alla villa rustica identificata nel sito n31. Essi potrebbero testimoniare fasi continuative dell’insediamento. Naturalmente l’ipotesi dovrebbe essere verificata da indagini di superficie ancora più approfondite e da scavi.[20] In corrispondenza del sito n31, sul lato destro del Tammaro, è stato individuato un altro sito (21),[21] interpretato come fattoria-villa di lunga occupazione.[22] L’area in cui la statua è stata rinvenuta, al centro dell’Alta Valle del Tammaro, rappresenta un importante punto di collegamento tra differenti aree “interregionali”. La valle del Tammaro segnava probabilmente il confine tra il Sannio Pentro e quello Irpino.[23] Essa rappresenta, dal punto di vista geografico, un’importante via di collegamento tra l’area centrale del Sannio, propriamente detto, e l’area irpina segnata dal fiume Calore, cioè tra l’area ad Est del Massiccio montuoso del Matese che faceva capo a Bojano e Sepino e la importante via di comunicazione tra il Tavoliere e la Campania antica, segnata in massima parte dal corso del fiume Calore e controllata dalla colonia di Benevento. Inoltre, l’Alta Valle del Tammaro rappresenta un’importante e in definitiva rapida via di raccordo con l’area della Puglia settentrionale garganica. La via attraverso il Fortore è solo uno di questi difficili ma alternativi percorsi.[24] Mentre un percorso ancora più diretto era costituito dall’asse comunicativo che dall’alta Valle del Tammaro conduceva a Lucera, intersecando la valle del Fortore, per poi scendere tra le attuali Alberona e Biccari. Anche per le epoche a cavallo tra la fine dell’età repubblicana romana e l’inizio dell’impero, la via più importante che interessava questa parte del Sannio era costituita dal Tratturo, identificato in seguito come Regio Tratturo Pescasseroli-Candela. Esso rappresenta un importantissimo oltre che un antichissimo percorso di comunicazione.[25] L’area di ritrovamento della Statua Santucci, si trova a circa 1 km /1,5 km dal fiume Tammaro. Masserie Santucci si trova a sinistra del corso del fiume, a un livello altimetrico superiore di circa 60 metri. Il gruppo abitativo rurale sorge su un falsopiano, leggermente digradante verso sudovest. A circa 435 m s.l.m., in un punto panoramico collinare piuttosto adatto all’uso agricolo.[26] Attualmente l’area si caratterizza per la presenza di campi destinati alla coltivazione di frumento e di foraggi. Vi si nota l’impianto di oliveti e di pochi vigneti. L’agricoltura praticata è di tipo tradizionale, effettuata con grossi mezzi meccanici, pertanto soggetta a forte attività erosiva e di dilavamento. Gli appezzamenti sono stati soggetti ad ampie azioni di “spietramento”, anche recenti, che hanno prodotto cumuli di pietrame in cui è difficile distinguere la presenza di eventuali blocchi litici lavorati in antico. La viabilità è trascurata e deturpata dal transito di mezzi pesanti. Spuntano ai margini degli appezzamenti, talvolta anche al centro degli stessi, imponenti querce secolari che resistono alla “requisizione” di spazi da destinare alle arature profonde. L’area è circondata da imponenti lavori di sbancamento realizzati per l’impianto di capannoni destinati all’allevamento intensivo. La leggibilità archeologica dell’area, a breve, sarà sostanzialmente compromessa. Possiamo soltanto provare a immaginare l’uso agricolo che si poteva fare dell’area in antico quando ampie macchie disboscate dovevano essere destinate alla produzione di frumento,[27] a oliveti e a vigneti. La presenza di un importante corso d’acqua e la vicinanza con spazi non coltivati doveva permettere la pratica dell’allevamento. Inoltre, il Tratturo passava a relativa poca distanza e doveva costituire un utile riferimento per lo sfruttamento agropastorale dell’area. Ipotesi di identificazione L’identificazione del soggetto rappresentato nella Statua Santucci è problematica per più fattori. Innanzitutto la statua è acefala. Di fatto è mancante del principale elemento utile alla sua identificazione. Inoltre, il principale “attributo iconografico” della statua, l’elemento vegetale[28] posto tra il torace e l’interno dell’avambraccio sinistro, non è ben riconoscibile in quanto lacunoso e consunto. Questa circostanza rende difficoltoso identificare con certezza la specie botanica riprodotta. Tuttavia si può ipotizzare che l’elemento sostenuto tra l’avambraccio sinistro e il torace della Statua Santucci possa riprodurre il fusto basale di una pianta di vite,[29] con un tralcio di aspetto vagamente “serpentiforme” e un racemo di foglie rigogliose. La presenza dei boccoli di una lunga barba, riconoscibili all’altezza dello sterno e la “prominenza” dell’organo genitale maschile sotto la veste, non dovrebbero lasciare dubbi sul fatto che a essere rappresentato sia un soggetto di sesso maschile. Inoltre, bisogna rilevare la totale assenza di accenno alla presenza di seni nella scultura. Quest’ultima caratteristica, dovrebbe permettere di escludere che si possa trattare della rappresentazione di un soggetto femminile. La concomitanza della presenza della barba e il mancato accenno alla rappresentazione del seno, dovrebbe anche escludere che si possa trattare della rappresentazione di un ermafrodito.[30] Crediamo si possa convenire che la Statua Santucci trasmetta una certa “ieraticità”, una certa “solennità” nell’aspetto generale, tale da rendere plausibile il fatto che ci si possa trovare di fronte a una rappresentazione di una divinità. Basandosi su quanto detto finora, la divinità a cui si può fare riferimento è Dioniso/Bacco.[31] La divinità non trova unicità nell’iconografia, anzi, è rappresentata con molte varianti. Proprio per assecondare la “variabilità” del Dio stesso. Una di queste rappresentazioni è costituita dalla forma di uomo barbuto, maturo, dai caratteri sessuali rimarcati, vestito di un abito femminile,[32] con uno dei suoi “attributi iconografici”: il cespo di vite, o “àmpelo”.[33] Frequenti sono le rappresentazioni di Dioniso in abito femminile, a indicazione dell’ambiguità del Dio, ma soprattutto a indicare la sua capacità di abbattere i limiti fisici, morali, culturali e di “stato”.[34] Il culto di Dioniso trova espressione massima nella celebrazione dei Baccanali, un complesso di atti rituali di tipo misterico cioè riservato a iniziati, in cui le donne acquisiscono un ruolo preponderante.[35] Il culto di Bacco/Dioniso[36] trovò, successivamente alla sua introduzione in Italia, una certa corrispondenza nel culto di una divinità italica, nota a Roma come Liber (o Liber Pater, o anche Iuppiter Liber) mentre, in ambito osco, tale divinità è identificata come Loufir.[37] Si tratta di un Dio italico agreste, legato allo sviluppo vegetativo e alla fecondità in senso ampio.[38] Il suo culto era ampiamente presente in ambito italico. Anche questo culto era ritenuto di tipo misterico, sebbene dai risvolti meno sconvolgenti per gli Italici, rispetto a quelli di Bacco.[39] L’identificazione di Bacco/Dioniso con l’italico Libero, dà forza a una ulteriore ipotesi che vedrebbe in Bacco una divinità urbana, mentre Libero riguarderebbe la stessa divinità in ambito rurale.[40] Al dio Liber,[41] detto anche Liber Pater, era dedicata a Roma un’importantissima festa che si teneva il 17 marzo. In questa data i giovani romani entravano nell’età adulta al compimento del sedicesimo anno di età,[42] mentre a Lavinio il culto di Liber era celebrato con una falloforia, ovvero, con una processione, durante la quale, veniva issata una riproduzione fallica al fine di propiziare lo sviluppo dei frutti e della campagna in genere. Di sicuro al dio Libero si fa ancora riferimento una volta che i Baccanali furono soppressi in varie parti della penisola.[43] A quel punto, però, il culto si arricchisce di apporti nuovi e diventa difficilmente distinguibile da quello di Bacco/Dioniso. Pare ampiamente condivisibile la teoria del Salmon secondo cui «i Sanniti dovettero essere particolarmente inclini ad accogliere una divinità così strettamente connessa con la terra».[44] Da considerare la notizia del Salmon[45] che vuole sia attribuito a Dioniso, in Italia, l’appellativo di Liknophoros[46], uno dei tanti appellativi del Dio. Dal punto di vista della rappresentazione figurativa, essa trova testimonianza anche in Campania. Decisamente indicativo è l’intervento di Raffaella Bosso[47] che descrive la scena dionisiaca di un sarcofago riutilizzato in epoca medievale e conservato nel Duomo di Napoli. Nell’area dell’Alto Tammaro il culto di Dioniso trova varie attestazioni archeologiche, prima fra tutte la nota maschera di Dioniso conservata al Museo Provinciale Sannitico di Campobasso.[48] Si tratta di una splendida placca in osso (a volte descritta in avorio), raffigurante una “maschera” di Dioniso.[49] Sempre in ambito sepinate, è attestato il culto di Iuppiter Liber,[50] in base a una epigrafe lacunosa, purtroppo senza ulteriori specificazioni. «Il culto di Iuppiter Liber, attestato nel vicino territorio frentano […] è ritenuto […] di matrice preromana e profondamente radicato tra le popolazioni italiche».[51] Nel territorio di Santa Croce del Sannio, relativamente a poca distanza dal luogo di rinvenimento della Statua Santucci, Michael Anzovino segnala il rinvenimento di un peso in bronzo da stadera, con decorazione figurata, in cui si è riconosciuto Giove-Ammone. L’Anzovino mette in rapporto questo reperto con uno simile rinvenuto a Penne di Vasto. Su quest’ultimo reperto si trova incisa: “iùveis/lùvfreis” (di Giove Libero).[52] Se come riteniamo, il raffronto è corretto, si può ritenere che il ritrovamento avvenuto a Colle Venditti di S. Croce del Sannio attesti il culto di Libero nell’Alto Tammaro nel II sec. a.C.. Il motivo iconografico a cui la Statua Santucci può fare riferimento è l’episodio raccontato dal mito greco della visita di Dioniso a Icario.[53] Il Dio, di ritorno dalle sue peregrinazioni in Asia, si reca in incognito da Icario. Questi lo ospita degnamente, in quanto straniero.[54] Senza dilungarsi sul mito, per non deviare eccessivamente il discorso, basta dire semplicemente che Dioniso ricambia l’ospitalità lasciando in dono allo stesso Icario il vino. Nello stesso tempo lo ammaestra sulla coltivazione della vite e sul procedimento della vinificazione, lasciandogli in dono un cespo di vite detto àmpelo.[55] L’episodio del mito trova varie rappresentazioni nell’arte antica, in particolare in bassorilievi marmorei e in terracotta in “stile” neoattico. Un esempio importante di queste rappresentazioni è costituito dal rilievo neoattico conservato al museo archeologico di Napoli (MANN). Si tratta di un rilievo in marmo bianco, di 13x76 cm, datato tra la fine del I sec. e l’inizio del II sec. d.C.; inventario n° 6713 (post 1870), conservato al Piano terra – Sala VIIa, n° 2. Esso è proveniente dalla collezione Farnese, a volte indicato per errore come proveniente dalla collezione Borgia. Lastre simili, di cui almeno tre molto conosciute e con lo stesso motivo iconografico, sono conservate in altri importanti musei del mondo: una si trova al Louvre a Parigi ed è proveniente da Roma (80x136 cm /spessore 10 cm); l’altra si trova a Izmir (Turchia), ed è proveniente da Efeso. Questi due rilievi sono addirittura realizzati da un comune disegno. Un terzo rilievo marmoreo con lo stesso soggetto si trova al British Museum (Londra). Purtroppo il reperto è stato alterato da restauri e adattamenti (n° inv. 1805.0703.123, misura 0,91x152 m). Lo stesso soggetto iconografico, sotto forma di lastra di terracotta in rilievo (lastra Campana), è conservato sempre al British Museum ed è proveniente da Roma (n° inv. 105.0703.324, h. 46,5 x L. 43 cm e dallo spessore di 6 cm). L’episodio è rappresentato con alcune varianti, rispetto alla rappresentazione dei rilievi marmorei citati. Un frammento di lastra campana, in cui è riconoscibile lo stesso episodio mitologico, è conservato al Museo Statale di Berlino (n° inv. 5k919, h. 56,6 x L. 43,7, spessore 5, 9 cm). Più difficile è ritrovare il confronto diretto con la statuaria, in quanto l’episodio presuppone un complesso di figure che è di difficile reperibilità e riconoscibilità.[56] Contesto insediamentale e viabilità Tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C., «il Sannio continuò a essere popolato da molte persone di stirpe sannita».[57] Tuttavia la sconfitta subita dai Sanniti Pentri, assieme alla loro coalizione sabellica a Porta Collina (82 a. C.), non fece altro che accelerare il fenomeno della romanizzazione anche nelle aree più interne, quelle più propriamente sannite. La latinizzazione del Sannio ebbe compimento in questo lasso di tempo. La battaglia di Porta Collina «aveva in ogni caso assicurato l'assimilazione delle varie razze e popoli d’Italia: ottenendo quanto chiedevano, essi [gli Italici] si erano assicurati la scomparsa delle loro proprie identità separate e da questo momento i Sanniti non sarebbero più rimasti distinti dagli altri Italici».[58] In generale, il territorio del Sannio realmente in possesso dei Sanniti si era ridotto di molto, a cominciare già dal IV sec. a.C., periodo in cui erano cominciate le confische romane. Molte aree anche di pascolo erano confluite nell’ager publicus romano. Ad alcune confische erano seguite varie assegnazioni a gruppi e a singoli provenienti fuori dal Sannio.[59] In seguito, confische e assegnazioni erano proseguite fino agli inizi del I sec. a.C.. Dopo la battaglia di Porta Collina, molti veterani di Silla furono insediati nell’area del Sannio. «Larghi tratti del territorio vennero semplicemente confiscati e distribuiti viritim ai suoi favoriti. Villae rusticae cominciarono a punteggiare il paesaggio».[60] L’area del Sannio Pentro, attuale Alta Valle del Tammaro, non sembra fare eccezione rispetto a questa descrizione generale. Dall’osservazione dei dati di ricognizione nell’area dell’Alto Tammaro, sia pur incompleti, si può cogliere, rispetto all’arrivo dei Romani, una prima fase in cui la sponda sinistra del Tammaro sembra essere stata soggetta a maggior interesse da parte dei nuovi arrivati, tanto per quanto riguarda l’utilizzo agricolo, maggiormente indirizzato alla coltivazione, tanto dal punto di vista strategico - militare, quale area di cuscinetto tra i gruppi dei Pentri sudorientali e gli Irpini;[61] mentre il lato destro del corso del Tammaro potrebbe essere stato destinato maggiormente all’allevamento e a disposizione delle genti locali.[62] Questo schema, a cavallo della fine della Repubblica romana e l’Impero sembra essere saltato in buona parte a giudicare dai ritrovamenti che delineano le nuove forme insediamentali. L’utilizzo sempre più generalizzato del latino, pur con alcune persistenze nell’uso della lingua osca, è il primo indicatore di un’avanzata e generale accettazione del sistema romano. Agli immediati inizi del I sec. d.C., anche nell’area dell’Alto Tammaro si assiste all’affermarsi di una forma di insediamento rurale caratterizzata da proprietà di ampie estensioni. Si afferma il sistema delle ville rustiche: un sistema basato sull’utilizzo di manodopera servile. Titolari di questa nuova forma di proprietà terriera erano in massima parte soggetti provenienti dall’esterno del Sannio, i quali non sempre risiedevano permanentemente nel corso dell’anno nelle nuove proprietà. A questi soggetti si affiancavano i maggiorenti locali che erano riusciti a integrarsi nel sistema romano e a farlo proprio. Accanto a questa forma di gestione delle aree agricole, resistevano piccole proprietà rurali, frutto di assegnazioni singole (viritane), effettuate in massima parte in favore di veterani. Si tratta di soggetti liberi, ma molto in difficoltà in quanto in competizione diretta con il sistema schiavistico. La presenza di allineamenti e suddivisioni agrarie regolari, con orientazioni sui punti cardinali, riscontrabili nell’area dell’Alto Tammaro, sono il correlato archeologico di distribuzioni terriere effettuate a più riprese. Collateralmente, furono fondati o rifondati due insediamenti urbani: si tratta di Saepinum e del centro dei Liguri Bebiani a Macchia di Circello. I due agglomerati rispondevano all’esigenza di gestire l’aspetto mercantilistico legato al traffico di prodotti derivanti dal commercio e dalla lavorazione dei prodotti agricoli e dell’allevamento transumante. Oltre che a concretizzare le nuove forme di gestione municipale. In primo luogo, il persistente insediamento individuato presso l’attuale Macchia di Circello[63] costituiva il centro amministrativo dei Liguri Bebiani, insediati dai Romani nell’area nel 191 a. C., e sembra avere acquisito autonomia amministrativa proprio in questo periodo.[64] L’insediamento era posto in adiacenza di un importante percorso transumante (Tratturo Pescasseroli-Candela) e costituiva un perno di confluenza di differenti percorsi, le cui direttive mettevano innanzitutto in comunicazione le valli del Calore e di Boiano-Sepino, quindi, l’Irpinia nordorientale e Benevento con le pendici sudorientali del Matese la cui catena montuosa costituiva un vero e proprio baluardo dei Sanniti Pentri. Inoltre, sempre dal centro dei Liguri Bebiani, seguendo percorsi non facili, ma in definitiva piuttosto veloci, era possibile raggiungere l’Apulia occidentale, in prossimità di Lucera.[65] L’agglomerato sorgeva leggermente spostato a Est rispetto all’Alto corso del Tammaro ma in posizione tale da consentire di controllarne il corso stesso. Tutt’intorno all’insediamento è possibile leggere tracce di divisioni agrarie, impostate su schemi regolari e orientati secondo punti cardinali. Tutto lascerebbe supporre che ci si possa trovare di fronte a differenti fasi di centuriazione, evidentemente funzionali ad assegnazioni di terre effettuate nell’area. È da supporre che gli assegnatari di proprietà terriere non fossero soggetti di stirpe e lingua osca, ma quasi sicuramente latina. Questo costituì sicuramente il maggior veicolo di romanizzazione dell’area dell’alto Tammaro. La “storicizzata” presenza di Liguri doveva aver già dato impulso a un’assimilazione con la cultura locale. Assimilazione che doveva essere già stata mediata dalla cultura romana, se non integralmente, almeno in massima parte. Intorno al centro dei Liguri Bebiani si possono individuare tracce di sistemazioni agrarie verificabili, oltre che sul terreno, dalle mappe catastali e dalle immagini da remoto. Esse, finora, non sono state oggetto di studio e analisi sistematica. Tuttavia, sembra si possano leggere in continuità con altre, sicuramente più note e studiate, presenti lungo il basso corso del Tammaro, individuabili procedendo verso l’area di Benevento. Ulteriori tracce di divisioni agrarie sono riconoscibili lungo il corso del Tammaro, verso Nord rispetto al centro dei Liguri, nell’attuale area di Cuffiano di Morcone. Altre tracce dello stesso tipo sono riscontrabili sul lato destro del fiume stesso, nella Piana di Morcone, dove è possibile riconoscere cospicui allineamenti di assi viari e di delimitazioni poderali.[66] L’altro insediamento urbano che caratterizza in questo periodo l’Alto Tammaro è costituito dalla fondazione della città di Sepino (Saepinum),[67] avvenuta nel II sec. d.C.. La città è posta a destra del corso del Tammaro, in prossimità delle sorgenti del fiume stesso e alle pendici sud orientali del Matese, con l’evidente funzione di controllo dei passaggi tra i due versanti appenninici a sud del Massiccio del Tifernus (Matese). La nuova città fortificata era per consistenza abitativa decisamente inferiore rispetto a quella delle epoche precedenti. Tuttavia, in questo periodo, a Sepino è attestato ancora l’uso dell’osco.[68] Tra i due principali centri menzionati, di fatto situati alla fine e all’inizio dell’Alta Valle del Tammaro, la ricerca archeologica di superficie ha individuato la presenza di diversi siti, testimoniati in massima parte da affioramenti fittili e ceramici.[69] Relativamente all’età repubblicana e imperiale romana, nel territorio di Morcone si nota una rarefazione dei siti, rispetto a quelli di piena epoca sannita.[70] I siti di epoca repubblicana e imperiale, in questa parte della valle, sembrano avere la loro maggiore concentrazione lungo le direttive di comunicazione,[71] le quali sono disposte parallelamente al Tammaro, sia a destra che a sinistra del suo corso, e trasversalmente al corso fluviale, con direttive facenti perno su due principali punti di guado/attraversamento: quella delle attuali Ponte Pescosardo e Ponte Stretto. Nello specifico, il punto di ritrovamento della statua Santucci si colloca lungo la direttiva che va dall’area di attraversamento del Tammaro, tra le attuali località la Starza e Piano Viole,[72] nel territorio di Morcone. Dal punto di vista della viabilità, l’area dell’Alto Tammaro è caratterizzata da due assi viari principali. Uno a Est (sinistra) del fiume, percorso di antichissima origine, il cui percorso “moderno” è ricalcato dal Tratturo Pescasseroli-Candela, è generalmente ritenuto il percorso tardo-antico della Via Erculea.[73] L’altro, a ovest del Tammaro, ne segue in parte il corso da Sepino in direzione Benevento-Valle Telesina, è il percorso seguito dalla viabilità contemporanea.[74] La stazione di posta riportata dall’Itinerario Antonino, come “Super Tamari Fluvium”,[75] sembrerebbe sia da collocare subito dopo l’attraversamento del Tammaro, provenendo da Sepino. Alcuni studiosi la collocano con una qualche certezza poco a Ovest di Case Pilla.[76] Contesto di riferimento Dal punto di vista stilistico, la Statua Santucci è inquadrabile con ogni probabilità nella produzione detta neoattica.[77] Sul concetto di prodotto neoattico la discussione è ancora piuttosto aperta. Basti dire che si tratta di un «fenomeno storico-artistico, nel quale, in un lungo arco di tempo dal II sec. a.C. al II sec. d.C. i processi creativi sono improntati a un gusto retrospettivo di stampo classicistico che si concretizza attraverso la libera combinazione di motivi arcaici, ellenistici e nuove creazioni».[78] La serie di prodotti, denominati dagli studiosi come “neoattici”, comincia a circolare nel mondo romano per sopperire alla richiesta di decorazione di spazi pubblici e sacri. In una prima fase, questi prodotti conservarono il loro valore votivo-sacrale originario. Successivamente, essi furono richiesti anche per ornare ville e domus di cittadini facoltosi: un sempre maggior numero di soggetti facoltosi che intendevano abbellire le proprie dimore per esigenze di interesse e gusto culturale, ma soprattutto, per prestigio sociale. Si trattava in massima parte di rilievi su lastre e di rilievi a tutto tondo in marmo[79] a cui si aggiungono rilievi in terracotta. «L’immagine e il suo contenuto furono di volta in volta adattati alle esigenze della committenza - almeno a partire dall’età augustea -, senza per questo perdere l’originaria valenza sacrale di cui erano portatori».[80] In una prima fase, i prodotti utilizzati provenivano direttamente dalla Grecia, in particolare dall’Attica. Successivamente, tali tipi di prodotti vennero realizzati anche in alcune parti di quella che era la Magna Grecia, tra cui la Campania.[81] La Statua Santucci può rientrare in questa serie di prodotti commissionati da cittadini romani facoltosi e possidenti, i quali avevano necessità di ornare spazi e contesti architettonici, siano essi di natura squisitamente privati, sia di carattere cultuale, come pure di carattere funerario. Si tratta di gruppi sociali, che tra la fine della repubblica romana e l’inizio dell’impero, sono ormai pienamente romanizzati, quando non di diretta provenienza da Roma. Essi sono, non solo inseriti nel contesto sociale di questa parte del Sannio, ma sono anche in grado di guidare le comunità in cui si erano inseriti e nelle quali avevano assunto il ruolo di gruppo dirigente. Dopo la Guerra Sociale (91-88 a.C.) e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, la romanizzazione doveva aver preso ancora maggior consistenza, anche nel Sannio Pentro. L’organizzazione dei territori, secondo lo schema dei “municipia”, attesta la piena assimilazione allo Stato romano dei territori degli insorti contro Roma. A seguito della concessione della cittadinanza, pur tra resistenze varie, molti aristocratici italici vennero inseriti nelle tribù romane. Nel caso dei Pentri, essi vennero assegnati alla tribù Voltinia. Possidenti vecchi e nuovi, ampiamente romanizzati, agiscono come committenti di prodotti “di moda”, funzionali a esprimere il loro nuovo modo di vivere. Un nuovo modo di vivere romano, in cui il riferimento verso modelli greci o grecizzanti ne costituiva il tratto distintivo. Lo stesso contesto geografico in cui l’ormai antico Sannio Pentro sudorientale veniva a trovarsi doveva favorire decisamente nuovi apporti culturali. Pur restando “tendenzialmente marginale”, quest’area rappresentava un importante punto di contatto tra le aree pianeggianti della Campania antica e quelle dell’Apulia settentrionale. Considerazioni generali Cercare di trarre considerazioni incontrovertibili da un reperto “fuori contesto” è operazione, oltre che inutile, dannosa. Se come crediamo, il reperto è ascrivibile a un prodotto “neoattico”, esso è l’attestazione dell’avvenuta romanizzazione dell’area pentra a sud-est del Matese, espressione di un ceto “altolocato”, ormai pienamente inserito nella romanità. La provenienza del materiale con cui è realizzato il reperto è tutta da accertare, come pure, la ricerca, seppur per ipotesi, dell’officina che lo ha realizzato, potrebbe dare informazioni preziose e spunti di ricerca notevoli. Queste due linee di ricerca sarebbero ancora praticabili, data l’assenza del contesto di ritrovamento. La Statua Santucci attesta la presenza di un culto bacchico nell’area dell’Alto Tammaro, di cui appaiono indicatori archeologici deboli, ma costanti sul territorio. La qualità del reperto fa della Statua Santucci un unico territoriale, meritevole di valorizzazione ai fini della creazione dell’identità e riconoscibilità di quest’area sannitica segnata dall’Alto Tammaro. Dal punto di vista cronologico, la Statua può essere collocata tra il I e il II sec. d.C.; pesa su quest’aspetto, più che su qualunque altro, l’assenza di documentazione sul contesto di rinvenimento. Certamente, studi stilistici particolareggiati potrebbero restringere la datazione del reperto, la quale, in questo momento, non può che rimanere ampia, in maniera prudenziale. Nella linea di stimolo a nuove ulteriori ricerche, si collocano i tentativi di ricostruzione grafica proposti nelle due tavole successive. --- 1. Questa tipologia di base di sostegno appare piuttosto pericolosa ai fini conservativi, in quanto sicuramente “instabile” in caso di terremoto o di urto accidentale. La statua potrebbe precipitare facilmente in avanti, o all’indietro. Cosa evitabile con un basamento quadrangolare più ampio. 2. Si è evitato di effettuare qualunque verifica diretta che presupponesse contatto, sfregamento, abrasione o similari. 3. Potrebbe trattarsi anche di cemento bianco o materiale similare. 4. La presenza dell’organo genitale era stata notata e descritta come: “una protuberanza ombelicale”, da Plensio, Giuseppe (P. Tommaso da Morcone); “Super Tamari Fluvium”. (Dall’itinerario di Antonino); Editrice La Grafica Moderna; Campobasso 1978, p. 34. 5. Fascia o nastro per capelli, arrotolata sulla testa e intorno alle tempie. Di solito annodato sotto la nuca, i cui estremi sono spesso ricadenti in avanti. Questo accessorio era normalmente usato dalle donne, ma in alcuni casi era usato anche dagli uomini durante i riti bacchici. L’utilizzo, anche da parte dei maschi, di questo accessorio nei riti riguardanti il culto di Dioniso ha anche valore simbolico e rappresenta il superamento delle barriere sessuali. La mitra è uno dei copricapi riscontrabili nelle rappresentazioni di Dioniso. 6. Il Plensio era frate Cappuccino, il cui nome da consacrato era Fra Tommaso da Morcone. Notizie sulla sua biografia si possono reperire nella Circolare 3/10 della Curia Provinciale Frati Minori Cappuccini – Provincia di Sant’Angelo e Padre Pio, Prot. 110/10. Egli fu autore di diverse pubblicazioni riguardanti Morcone, sua città natale. La notizia è riportata in: G. Plensio, (P. Tommaso da Morcone); Super Tamari Fluvium. (Dall’itinerario di Antonino); Editrice La Grafica Moderna, Campobasso, 1978, p. 34. 7. Tale data è indicata nella numerazione del Museo Civico di Morcone. Essa però non è riportata nella prima pubblicazione sul ritrovamento: G. Plensio, (P. Tommaso da Morcone); Super Tamari Fluvium (Dall’itinerario di Antonino); Editrice La Grafica Moderna, Campobasso 1978, p. 34. 8. Dovendosi intendere, a mio modesto parere, Masseria Santucci come il toponimo più prossimo al ritrovamento e non come luogo “puntuale” del ritrovamento stesso. 9. Indicato in alcune carte anche come Pianoviole, Pianoviola (“Chiana ‘e Viola”, o “Chianoviola”, localmente). La CTR Campania riporta il toponimo con la grafia: Pianoviola. Il falsopiano in questione è indicato come Piano Viole-Santucci nell’elenco delle località e contrade di Morcone nella Carta Archeologica del Tratturo beneventano del Regio Tratturo e del comune di Morcone, a cura di Luigi La Rocca e Carlo Rescigno; Quaderni OEBALUS – 2, Lavieri edizioni, 2010, p. 225. 10. L’antiquarium del Convento dei Frati Cappuccini di Morcone consisteva in una piccola raccolta di oggetti litici antichi, e tra essi, la Statua Santucci. I blocchi litici furono reimpiegati nel rifacimento di una cappella presente all’interno del giardino del convento stesso (il c.d. Cappellone) ed è probabile che in quella occasione la Statua fu trasferita a Casa Sannia, dopo gli interventi di risistemazione di quest’edificio, nella metà degli anni Ottanta del Novecento. 11. Anche di queste informazioni, sono debitore nei confronti di p. Pio Capuano, frate cappuccino a Morcone (gennaio 2022). 12. G. De Benedittis, L’Alta Valle del Tammaro tra Storia e Archeologia, in STUDI BENEVENTANI – 4/5, 1991, pp. 3-38. 13. Ivi, p. 27. 14. L. La Rocca e C. Rescigno, a cura di, Carta Archeologica del Tratturo beneventano del Regio Tratturo e del Comune di Morcone, Quaderni OEBALUS – 2, Lavieri edizioni, 2010, p. 60. 15. Ibidem. 16. Per quanto riguarda questa seconda definizione, non sono riportati rinvenimenti o attestazioni specifiche. Essa viene desunta, presumibilmente, dalla interpretazione del reperto, data da: G. De Benedittis, L’Alta Valle del Tammaro tra Storia e Archeologia, in: STUDI BENEVENTANI – 4/5, 1991, p. 27. 17. L. La Rocca e C. Rescigno, a cura di, Carta Archeologica del Tratturo beneventano, 2010, Op. cit., p. 60. 18. Ivi, pp. 80 e 81 e TAVOLA I. 19. Ivi, pp. 81- 83 e TAVOLA I. 20. Per un’analisi complessiva della distribuzione e dell’estensione dei siti individuati, L. La Rocca, C. Rescigno, Annotazioni sulla carta archeologica, in: Carta Archeologica del Tratturo beneventano, Op. cit., pp. 297- 313 21. Ivi, pp. 74-75 e TAVOLA I. 22. Da elementi viari persistenti, è possibile ipotizzare che i due siti (n31 e 21) indicati dalla Carta Archeologica fossero in corrispondenza di un attraversamento sul Tammaro, lungo un asse comunicativo “trasversale”, il quale, passando per le attuali Masserie Santucci, conducesse verso l’attuale Santa Croce del Sannio, passando per Quercegrossa, in direzione del Tratturo. Naturalmente si tratta di una circostanza tutta da verificare sul campo. 23. E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti; Giulio Einaudi editore; Torino 1985, p. 44. 24. Ivi, p. 23. 25. La bibliografia sui tratturi in generale è letteralmente sterminata e riguarda vari aspetti di questi importanti assi di comunicazione. I tratturi hanno svolto la loro principale funzione di spazio per il trasferimento di greggi e armenti transumanti, attraverso diversi millenni. Il ruolo dei tratturi e la loro importanza si evolve nel corso dei secoli pur restando immutabili nella loro funzione principale. Essi vanno rapportati a ciascuna epoca in cui vengono esaminati. Per un inquadramento “ambientale” del tratto beneventano del Tratturo Pescasseroli-Candela, purtroppo senza rinvii bibliografici, si veda: A. Papa, Il progetto di recupero ambientale del Regio Tratturo, in Carta Archeologica del Tratturo beneventano, Op. cit., pp. 17-23. Nella bibliografia dello stesso testo si possono trovare pubblicazioni riguardanti l’archeologia della pastorizia. Un’interessante e breve bibliografia introduttiva, sul Tratturo in questione, è riportata in: Adreassi et alii, a cura di, Itinerari del Tratturo Pescasseroli-Candela dalla Taverna di Cantalupo a Porta Bovianum, Terredimezzo, Università degli Studi del Molise, p. 78. Altra utile bibliografia, è possibile reperire in: G. De Benedittis, a cura di, Dal Tratturo al Matese. Guida all’Area Matesina della Provincia di Campobasso, Amministrazione Provinciale di Campobasso, Campobasso 2001; in particolare pp.230-233. 26. Carta Tecnica Regionale della CAMPANIA n°419012 (Case Galli). Lat. 41°21'33.97"N / Lon. 14°42'36.59"E . 27. E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit. pp. 21, 29-30. 28. L’elemento è stato identificato in passato come parte di una cornucopia. Su questa stessa identificazione si era identificata la Statua Santucci come rappresentazione della dea Fortuna/Tyche (Carta Archeologica del Tratturo beneventano, Op. cit. p. 60 (sito B24)). L’identificazione come cornucopia lascia qualche dubbio. Nel caso specifico, la cornucopia sarebbe tenuta bassa, con la parte sommitale poco al di sopra dell’avambraccio, mentre, solitamente, nella maggior parte delle rappresentazioni è tenuta più in alto, con la parte superiore spesso all’altezza del torace o addirittura in qualche caso, anche oltre il torace stesso. Generalmente vi sono rappresentati frutti di specie differenti. Inoltre, l’elemento vegetale, benché poco identificabile, sembra costituire un’unica specie vegetale. Quest’ultima caratteristica contrasterebbe con il “messaggio” della cornucopia, che dovrebbe vedere rappresentati più elementi vegetali in segno di abbondanza. 29. Tecnicamente dovrebbe trattarsi di un “àmpelo”: la parte radicale di una pianta di vite, con tralcio potato e il fogliame che rispunta dopo la stagione invernale, oppure, dopo che si è ottenuta la “radicatura” del tralcio per talèa. 30. Ipotesi non scartata in una prima fase dell’osservazione. La rappresentazione di ermafroditi non è infrequente nella statuaria antica. Si tratta di rappresentazioni poco comprensibili agli occhi di noi contemporanei, per questo, oggetto di ampia discussione tra gli studiosi. Le varie forme rappresentative di ermafroditi sono poco chiarite dalle stesse fonti antiche: in genere si tratta di rappresentazioni dai risvolti socioculturali e religiosi legate a varie forme cultuali, soprattutto attinenti la fecondità, in qualche caso, anche in rapporto con i riti del matrimonio. Nel caso delle rappresentazioni degli ermafroditi, però, l’organo sessuale maschile è quasi sempre rappresentato in erezione (itifallico). 31. Bacco (o Dioniso) è divinità non facilmente riassumibile tanto nell’origine del suo culto quanto nelle sue caratteristiche complessive. Gli studiosi concordano nel ritenere che, sebbene apparentemente estraneo al panteon greco primitivo, Dioniso sia entrato già in fase molto antica nel novero delle divinità elleniche maggiori. Molti sono gli episodi del mito greco che vedono coinvolto questo Dio e la letteratura a esso attinente è praticamente sterminata. Il culto di Dioniso acquistò ampia diffusione soprattutto in Italia meridionale, proveniente dalla Grecia. In questa parte della penisola il suo culto è fortemente sentito e praticato. Proprio in Campania è attestato dal V sec. a.C. (E. Togo Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit. p. 173, n. 211). È comunemente accettato che questa divinità fu conosciuta in Italia attraverso il culto di “Iacco”. Iacco è uno dei tanti epiteti di Dioniso che evidentemente assimila una divinità precedente. È inteso come divinità annunciatrice di Dioniso, infatti è rappresentato alla testa di cortei misterici con fiaccola in mano, ma anche come manifestazione dello stesso Dioniso. È citato anche nelle Baccanti di Euripide (G. Ieranò, a cura di, Euripide, Baccanti; v. 725; Mondadori, Milano 1999, pp. 138-139). La tragedia di Euripide, del 407/6 a. C., resta anche un testo fondamentale per la comprensione della figura di Dioniso e dei riti a lui collegati. Le rappresentazioni di Dioniso/Bacco non sono univoche. Esse rappresentano nelle loro molteplici varianti le innumerevoli forme e aspetti in cui il Dio si manifesta e viene descritto nei suoi stessi miti. La mutevolezza, la molteplicità, la sfuggevolezza, anzi, è il tratto saliente di questa divinità. Dioniso ha attinenza con i cicli di morte e rinascita, tanto umana che vegetale. È la forza che attraverso l’estasi, ottenibile durante i suoi riti, in vari modi, libera l’uomo dal suo stato materiale. Il suo raggio di azione è trasversale agli strati sociali e alle differenze sessuali. Per tale motivo, il suo culto è spesso guardato con sospetto. 32. L’abito femminile è l’elemento essenziale attraverso il quale gli uomini posso partecipare ai culti bacchici, a rappresentare la capacità di Dioniso di mettere in comunicazione ciò che è separato: maschile e femminile, tra le altre cose (con tutte le conseguenze di sconvolgimento di classe e di stato che ne possono derivare). All’abito femminile si fa riferimento, come elemento assolutamente essenziale per la partecipazione ai culti orgiastici, in più punti nelle Baccanti di Euripide. Dioniso, addirittura, lo pone come condizione a Penteo per poter partecipare al Baccanale, un desiderio-condizione ispirato dal Dio stesso (G. Ieranò, a cura di, Euripide, Baccanti v. 915, Op. cit., pp. 64-65). La tragedia di Euripide descrive la vestizione di Penteo assimilandola all’atto della kòsmesis, ovvero l’azione rituale con la quale si abbigliava il simulacro della divinità al momento di una celebrazione. Per inciso, il rituale si è conservato anche nella cattolicesi. Vestizioni di statue di Santi e della Madonna avvengono ancora oggi in occasione delle festività. 33. L’aspetto serpentiforme che spesso assume il tralcio basale della vita rinvia ad aspetti ctonii del culto di Bacco, sul quale non ci si può soffermare per non deviare eccessivamente dal discorso generale. 34. «Dioniso è dio polimorfo, dio degli inferi, dio dell’Altro, della vegetazione, del vino e dell’estasi, dio dei riti di passaggio, del teatro, dio connesso col fallo, con la rinascita e il rinnovamento orfico, dio di liberazione, dio di morte e risurrezione […] manca di un’identità costante, i suoi caratteri distintivi essendo la dualità, il contrasto e il rovesciamento di ruolo: la vasta gamma di esperienze che il dio personifica sono descritte da coppie di opposti come vecchio/giovane, guerra/pace, vita/morte e anche maschio/femmina […] mentre gli altri dei dell’Olimpo erano rappresentati esclusivamente come maschi o femmine, Dioniso incarna caratteristiche di entrambi i sessi. È androginico come quell'Atena che, come lui, è nata da un parto maschile di Zeus. È inoltre nipote di Rea, la nonna paterna, con cui condivide la contiguità simbolica con un femminile autonomo e potente» (G. Burgio, Guardare l'indicibile: Il tema dell'androginia tra Tiresia e Dioniso, ANAIS DE FILOSOFIA CLÁSSICA, vol. 13 - nº 26, 2019, p. 134). L’intervento è molto esplicativo anche riguardo il concetto di “androgino”, di “travestitismo rituale” e di “transessualismo”, non solo riferendosi a Dioniso, ma anche in riferimento ad altri personaggi legati al suo mito e, per questo, a loro volta citati nelle Baccanti di Euripide. 35. Si ritiene che il culto di Dioniso/Bacco abbia trovato a Roma ampia diffusione nel II secolo a.C.. A Roma, il culto dei Baccanali suscitò delle perplessità in termini di morale pubblica e privata. Questa forma rituale, a un certo momento, si legò ad aspetti politici poco chiariti storicamente. La circostanza provocò una forte reazione delle autorità romane che ne soppressero violentemente la pratica, non solo a Roma, ma in tutto il territorio controllato, in modo inusuale rispetto alla nota tolleranza del potere romano verso forme di culto importate. Nel 186 a.C. il Senato di Roma chiede ai Consoli di reprimere questo culto, tramite il cosiddetto Senatoconsulto sui Baccanali (B.Perri, IL COSIDETTO “SENATUS CONSULTUM DE BACCHANALIBUS” DEL 186 A.C, https://web.archive.org/web/20180521161803/http://www.basilioperri.net/aggiornamentiupdate/55-il-cosidetto-senatus-consultum-de-bacchanalibus-del-186-ac.html . URL consultato il 18 marzo 2022 (archiviato dall'URL originale il 21 maggio 2018). 36. Questo complesso di azioni rituali prendeva il nome di òrghia. Il cui significato primario è da intendersi come complessi di cerimonie cultuali riguardanti divinità misteriche, consistenti in atti tumultuosi e poco controllati, non sempre e non per forza, di natura sessuale, caratterizzati da atteggiamenti tesi di promiscuità sociale e di genere. 37. E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit., p. 173, n. 212. 38. Egli aveva una divinità femminile corrispondente (paredra), nominata LIBERA e a Roma faceva parte di una triade costituita da Libero-Libera/Cerere. Questa triade a sua volta trova un parallelo nella religione greca, costituita da Iacco-Dioniso/Kore/Persefone. 39. A questa divinità fa riferimento lo stesso Cicerone per spiegare le ragioni per le quali i Latini chiamavano i propri figli col termine di Liberi (Cicerone, De natura deorum, II, 62). 40. Questa teoria ha trovato conferme anche in studi relativi ad ambito provinciale ispanico: TY - JOUR M. Pastor, La impronta simbólica de "Liber Pater" en los rituales y el consumo de vino en Hispania romana: el caso de Segobriga; in Revista Murciana de Antropología; 2005/01/01, pp. 119-131. L’intervento è corredato da un’esplicativa bibliografia sul dio Libero e il suo rapporto con l’uso rituale del vino e dei motivi fallici. 41. «Certo è che la triade Ceres-Liber-libera sembra aver raggiunto Roma dalla Sicilia e dalla Campania» (E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit., p. 167, n. 145). 42. Il Dio si celebrava attraverso una serie di complessi rituali, sia pubblici, che privati. 43. Ne riferisce lo stesso Sant’Agostino (Agostino, De Civitatae Dei; VII, 21). 44. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op.cit., p. 173. La relativa osservazione alla nota 214 a p.193, impone dei ripensamenti su ciò che ci è stato tramandato sul modo di vita dei Sanniti stessi. 45. Ivi, p. 166, n. 121, ap. 187. L’ipotesi del Salmon è ripresa anche da J.M. Pailler, Bacchanalia. La répression de 186 av. J.-C. à Rome et en Italie : Vestiges, images, tradition, Ecole française de Rome, Rome 1988, pp. 3-868. (Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, 270); in particolare p. 313. https://www.persee.fr/doc/befar_0257-4101_1988_mon_270_1 46. L’appellativo nasce dal riferimento allo strumento del “vaglio” (λίκνον), detto in latino col termine “vannus”, rimasto nella lingua locale come “vanno”. Esso era usato per ripulire i semi di granaglie e di altro grazie all’ausilio del vento. Lo strumento, essendo un canestro con un lato aperto, veniva utilizzato anche per deporvi gli infanti. Da qui il valore decisamente sacrale dello strumento stesso che veniva rappresentato in queste varianti di utilizzo. Numerose sono le rappresentazioni di Dioniso fanciullo, deposto proprio nel vaglio. A tale proposito, molto nota è la lastra Campana conservata al British Museum (Numero 1805,0703.321), proveniente dall’area di Sacrofano – Roma. La lastra è datata a età augustea. Un’altra lastra Campana, altrettanto indicativa, è datata alla fine del I sec. / inizi II sec. d. C. e presenta un satiro che porta un vaglio (liknon), in cui sono rappresentati dei frutti e un fallo, a un iniziato. La lastra è conservata nella collezione archeologica del FriedrichschillerUniversität Jena, Archäologische sammlungen (n. inv. sAK T 200). 47. R. Bosso, «Fai di un uomo un falso dio». Il mito di Penteo e Agave su un tardo sarcofago dionisiaco reimpiegato in un sepolcro medievale, in R. Bosso, E. Nuzzo, a cura di, SYMPLEGMATA Studi di archeologia dedicati a Simona Minichino, Giannini Editore, Napoli 2018, pp. 71 - 99. 48. La “maschera” è ritenuta comunemente un’applique per mobile ed è datata a cavallo tra il I e il II sec. d.C.. Essa fu rinvenuta in circostanze non ben particolareggiate a Sepino/Altilia (CB). Il reperto fu rinvenuto nel 1877, nella proprietà di Giambattista Tiberio, in prossimità della porta est della città. Vi è inciso un volto con lunghi baffi e lunga barba, con spazio vuoto per grandi occhi, attribuibile a Dioniso. La “maschera” misura 16x12 cm e pochi mm di spessore. Attualmente è esposta al Museo Provinciale di Campobasso, con il n° di inv. 1311 (descritto come realizzata in osso). (Sepino, “Notizie degli Scavi di Antichità”, Anno 1877, XXV, pp. 280-281). Inoltre il reperto è brevemente descritto in Il Museo Sannitico Di Campobasso. Un viaggio di 4000 anni nella storia del Sannio, in Il patrimonio culturale del Molise, “Prospettive” n° 6 –; pp. 19 e 20. 49. Si deve sottolineare che una delle rappresentazioni di Dioniso è costituita da una maschera cava e vagamente sorridente. Essa ha funzione di simulacro ed è rappresentata in “faccialità”, a esprimere i messaggi diretti del Dio, con funzione di trascendenza. Incarna la funzione di confusione tra i limiti umani e divini, tra cultura e natura, tra selvaggio e civilizzato, tra realtà e illusione. Spesso queste maschere erano oggetto di adorazione e rappresentavano fisicamente il Dio. In molti casi sono testimoniate maschere di Dioniso sormontanti una colonna rivestita di edera (o smilace), a costituire un simulacro di venerazione. Tuttavia, questo tipo di funzione non è stata riconosciuta nella “maschera” di Sepino, conservata al Museo di Campobasso. 50. Per l’epigrafe stessa, circostanza del riconoscimento e collocazione attuale, cfr. V. Scocca, Sepino, Altilia, loc. ubicazione incerta, Iuppiter Liber; in S. Capini, P. Curci, M. R. Picuti, a cura di, Fana, Templa, delubra.Corpus dei luoghi di culto dell’Italia antica - 3 Regio IV: Alife, Bojano, Sepino. Collège de France, Paris 2015, pp. 81-82. 51. Ibidem. 52. M. Anzovino, Contributi alla Carta Archeologica della Valle del Tammaro, in “Considerazioni di Storia e Archeologia”, 8/2015; pp. 7-14. In particolare p. 9, nn. 10, 11, 12. 53. Le principali fonti antiche in cui l’episodio è ricordato sono: Nonno di Panopoli; Dionesiache (Διονυσιακά); L. XLVII. Igino; Fabulae; 130 / 3,28. 54. L’episodio tira in ballo un concetto molto caro alla cultura antica e di quella greca in particolare: il dovere di ospitalità verso lo straniero; quest’ultimo, in quanto tale, assimilabile a una divinità. Il dovere di ospitare lo straniero è conosciuto come “xenìa”, quando quest’azione si effettua nei confronti di un Dio è indicata come “teoxenìa”. Il dovere consisteva nel fornire vitto e alloggio all’ospite sconosciuto. Quest’ultimo si sentiva poi in dovere di ricambiare, lasciando un particolare dono a colui che lo aveva ospitato. Nel mito di Dioniso e Icario, l’episodio assume particolare rilevanza proprio perché siamo di fronte a un episodio di teoxenia. 55. Ampelo è anche il nome del giovinetto amato da Dioniso, morto accidentalmente, secondo alcune versioni del mito stesso, nel tentativo di cogliere un grappolo d’uva da un’alta pianta di vite. In altre versioni, Ampelo viene scaraventato a terra da un toro che cerca di cavalcare. La morte sconvolge talmente tanto Dioniso che, dalla commistione delle sue lacrime con il succo d’uva, fu creato il vino. Il mito è raccontato da: Nonno di Panopoli, Dionesiache (Διονυσιακά); XI e XII, 1-117. 56. Per quanto riguarda rappresentazioni “a tutto tondo”, benché non rapportabili al mito di Dioniso e Icario, alcuni spunti iconografici, potrebbero essere costituiti da Dioniso appoggiato a un Satiro, conservato al Museo Archeologico di Venezia, datato al II sec. d.C.; Il Dioniso Ludovisi conservato al Palazzo Altemps di Roma, datato alla fine del II sec. d.C., oltre al Dioniso di Pollena Trocchia conservato al Museo archeologico di Napoli (MANN). 57. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit. p. 394. 58. Ivi, p. 395. 59. Ivi, p. 398, n. 220/p. 416. 60. Ivi, p. 396. 61. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit., p. 44. 62. Si dovrebbe trattare di una divisione dettata in parte dalle differenze geomorfologiche caratterizzanti le due sponde fluviali. Tale differenza doveva già essere stata colta dai Sanniti stessi, che con ogni probabilità avevano già dato differenti utilizzi alle due aree. 63. L. La Rocca, Circello. Il centro dei Liguri Bebiani, in L. La Rocca, C. Rescigno, a cura di, Carta Archeologica del Tratturo beneventano, Op. cit., pp. 247- 253. 64. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit., pp. 85, 323, 400; n. 227/p. 417. 65. Ivi, p. 23, n. 35/p. 30. 66. È stato ipotizzato che gli allineamenti interpoderali visibili nella zona siano relativi ad assegnazioni di terreni operati in Età Moderna (soprattutto nel XVII e XVIII secolo). Fonti moderne, infatti, indicano quelle aree come interamente coperte da boschi. Il ritorno ad area boschiva dell’area dovrebbe risalire già al Medioevo. L’area di Cuffiano era conosciuta con il toponimo di “Vòscho”, ovvero bosco. Questo è stato ritenuto indizio determinante per sostenere che gli allineamenti fossero frutto di interventi di epoca moderna/contemporanea. Tuttavia la “sistematicità” degli allineamenti stessi, il loro orientamento di base su punti cardinali, la loro modularità, oltre che il loro “sovrapporsi in maniera stratigrafica” in alcuni punti del territorio, farebbero propendere per un’operazione di “agrimensura” di epoca romana. La diffusione ampia e persistente del bosco in epoca medievale e post-medievale è cosa peraltro piuttosto frequente anche in aree fortemente segnate dagli interventi di epoca romana. Naturalmente, l’ipotesi dovrebbe essere confermata da documentazioni stratigrafiche e studi accurati di misurazioni delle evidenze. Operazioni che finora non sono mai state effettuate. La tesi che si tratti di sistemazioni agrarie moderne è sostenuta anche da G. De Benedittis, L’Alta Valle del Tammaro tra Storia e Archeologia, Op. cit., pp. 3-38. In particolare a p.31 e 32 e per relative fonti: note 30 e 31 p. 31, nota 32 a p. 32. 67. Per un primo approccio bibliografico al sito: AA.VV. Saepinum – Il Museo Documentario dell’Altilia, Campobasso, 1982; AA.VV. Sepino Archeologia e Continuità, Matrice, 1979; G. Colonna; Saepinum – Ricerche di topografia Sannitica e medievale, in “Archeologia Classica”, XIV, Roma 1962, pp. 80-107. 68. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Op. cit., p. 401, n. 244/p. 417. 69. Il testo di riferimento, anche per la bibliografia proposta è: L. La Rocca, C. Rescigno, Carta Archeologica del Tratturo beneventano, Op. cit.. 70. Ivi, fig 8, p. 307. 71. Ivi, fig 4, p. 305. 72. Ivi, figg. 5 e 6, p. 306. 73. M. Anzovino, Contributi alla Carta Archeologica della Valle del Tammaro, Op. cit, pp. 7-14. 74. La prevalenza di un percorso sull’altro si è alternata nel corso del tempo. Non è da escludere, però, che relativamente al periodo di cui si parla, entrambe le direttive viarie fossero utilizzate e di medesima rilevanza. 75. Su questa testimonianza storica si è molto scritto e, con identificazioni non univoche, la stazione doveva avere una certa rilevanza. 76. Lat. 41.386302, long. 14.683403 . N. Purcell , DARMC , R. Talbert , Sean Gillies , Tom Elliott e Jeffrey Becker , 'Super *Tamari Fluvium: a Pleiades place resourc È, Pleiades: A Gazetteer of Past Places, 2015 <https://pleiades .stoa.org/places/433135> [accesso: 31 gennaio 2022]. 77. Sulla denominazione e sulle caratteristiche specifiche delle officine di questa specifica produzione non vi è, tra gli studiosi, uniformità di vedute. Esiste sull’argomento una visione di massima, comunemente accettata. Inutile sottolineare che, data la complessità dell’argomento, la bibliografia è da ritenersi praticamente sterminata. Si riporta qui solo quanto ritenuto direttamente attinente. L. Di Franco, Un cratere a volute in marmo da Taranto: note sull’origine e la diffusione dei rilievi “neoattici” in Grecia e in Italia; in “OSTRAKA”, Rivista di antichità Anno XXVIII – 2009, pp. 34- 41. 78. Ivi, p. 34. 79. Ivi, n. 58. Anche sul valore che veniva attribuito a questi manufatti (artistico-estetico, religioso-votivo, ecc.) e relativamente al concetto di “copia”, la discussione scientifica, come già detto, è in atto. La risposta a queste questioni è certamente articolata e dipendente dal contesto in cui ciascun prodotto veniva ad essere inserito. 80. L. Di Franco, Un cratere a volute in marmo da Taranto, Op. cit. p. 40 – 41, con importante rinvio alla nota 127. 81. La Campania antica non trova corrispondenza con la divisione amministrativa contemporanea. Tuttavia, alcuni studiosi tendono a ricondurre gli studi all’area amministrativa attuale, cercando, in questo modo, di far riferimento all’entità geografica-amministrativa attuale, per tentare di dare unitarietà alle ricerche. Comments are closed.
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