di Antonio Mastrogiacomo Introduzione Nel passaggio di stato da arte pura ad arte di puro intrattenimento, il carattere di serietà della cosa musicale sembra non intaccato, al netto di una "non separazione" tra musicisti e pubblico nel giudicarlo tale. Certo, si sono moltiplicati campi di possibilità e di azione – tenendo anche conto della funzione di una cultura musicale orientata ad una democrazia dei suoni, che ha tutti i caratteri del totalitarismo quando scema la possibilità di scegliere cosa ascoltare. In effetti, l'industria culturale ha fatto passi da gigante, sfruttando sempre più la partecipazione del pubblico nella creazione del consenso che determina il successo di un prodotto musicale. Il contributo mira all’individuazione del carattere di serietà della cosa musicale in due compositori così radicali da risultare filosoficamente opposti: Richard Wagner e John Cage. 1. Sulla funzione Ricostruire una storia della musica partendo dai suoni è operazione quanto mai difficile: il fonografo ha rivoluzionato le sorti della materia sonus solo a partire dalla fine del secolo XIX. Siamo, insomma, monchi di tracce che ci permettano di ascoltare, ad esempio, il canto dei panificatori della Tracia antica tanto quanto le cantilene degli schiavi delle triremi, che ritrovavano il ritmo della bracciata proprio nei suoni che riempivano la stiva. Che poi la musica giochi un ruolo fondamentale nel passaggio a largo delle sirene, è cosa buona e giusta ricordarlo - insieme al chiarissimo riferimento a Dialettica dell'illuminismo [M. Horkheimer, T.W. Adorno, 1969, p. 66]. Ritroviamo altresì le spore di questa funzione ogni volta che entriamo in un supermercato e vediamo, semmai, la cassiera riprodurre col labiale l'ultima hit il cui bombardamento risulta il mezzo con cui una qualsiasi radio commerciale raggiunge il suo fine, proprio mentre lei fa scorrere ogni prodotto al suon di una secca, monotona, ritmica sinusoide (funzione di sorveglianza, questa sì, serissima affidata alla musica). 2. O Tempora o Mores I tempi sono quelli che sono. I format hanno ridisegnato non solo i palinsesti televisivi, ma anche i nostri padiglioni auricolari, mentre gli arrangiamenti hanno guadagnato trame elettroniche sconosciute ad una canzone d'autore italiana di cui è difficile trovare traccia se non in un remake. L'intervento mira proprio a segnalare la pervasività del paradigma delle musiche elettro-elettroniche proprio mentre scrivo, proprio mentre leggi. Non solo. È interessante segnalare anche come il muto consenso musicae si muova da Richard Wagner al contemporaneo Pharrell Williams. Secondo una impostazione gianica che possa riconsegnare al lettore uno schizzo mai completo, almeno accennato, del carattere di serietà della cosa musicale nella società suo specchio, le operazioni di John Cage ne risultano contrappunto dialettico. Compositori tanto seri quanto diversi, dei quali la vita e l’opera - non solo musicale, ma soprattutto letteraria – s’intrecciano al punto da diventare inscindibili, trama di un arazzo che segnala i rapporti di fruizione tra arte e società: un'arte che quanto a serietà ne ha guadagnata molta nei processi economico-burocratici, meno nella responsabilità del musicista-compositore di farsene interprete, troppo distratto dal produrla. Sia chiaro. Anche la recente riforma del sistema A.F.A.M va nella stessa direzione. Dunque, dopo il benvenuto al jazz, ben venga la pop music. La reificazione di queste, un tempo antiaccademiche, forme musicali continua, mentre vengono inscatolate in crediti, misura che segna l'attuale produzione culturale accademica. Ma torniamo a Richard Wagner e a John Cage. 3. Richard Wagner a sonnolenta città tedesca di Bayreuth è l'unico posto della terra in cui il secolo XIX si rinnovi eternamente. Qui, nel 1876, Wagner presiedette all'inaugurazione del suo teatro dell'opera e alla prima esecuzione completa della tetralogia dell'Anello. Gli imperatori di Germania e Brasile, i sovrani di Baviera e Wurttemberg, e almeno una dozzina di granduchi, duchi, principi e principi ereditari presero parte alla cerimonia inaugurale, insieme ai più importanti compositori di vari paesi (Liszt, Cajkovskij, Grieg, Gounod) e a giornalisti di tutto il globo. Gli articoli dei corrispondenti apparvero per tre giorni sulla prima pagina del New York Times. Cajkovskij, che non era certo un sostenitore di Wagner, rimase affascinato alla vista del piccolo compositore, quasi simile a un nano, seduto sulla carrozza dietro a quella del Kaiser tedesco, non da servitore dei signori illustri della terra, ma da loro eguale. L'illusione dell'onnipotenza culturale di Bayreut viene rinnovata ogni estate durante l'attuale festival wagneriano, quando i caffè si riempiono di gente che discute dettagli del libretto dell'Anello, il volto del compositore vi fissa dalle finestre di quasi tutti i negozi e sui tavoli davanti alle librerie campeggiano pile di riduzioni per pianoforte delle suo opere. Per qualche settimana di luglio e agosto, Wagner continua ad essere il centro dell'universo» [Ross, 2016, pp. 29-30]. Così Richard Wagner è presentato da Alex Ross nel capitolo Richard I e III, quasi al principio del testo Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo. Non si può non partire infatti da Wagner nel definire la musica del secolo XX: Richard Wagner è stato seriamente impegnato nel cambiare per sempre le sorti della musica. Spesso, ci si sofferma sull'introduzione della melodia infinita, sul gioco del leit-motiv come chiari esempi delle modificazioni apportate in campo prettamente musicale. In effetti, ne troviamo traduzione nelle fasce sonore di costruzione tessiturale (il dronico, dalla sua apparente staticità, sempre in mutazione) e nella tradizione pubblicitaria (il jingle). Meno ci si sofferma sulla ridefinizione introdotta dalla sua ideologia del pubblico – sarebbe meglio dire popolo - che è il fine della sua musica come mezzo di purificazione. Ci tocca rimandare il lettore al testo a firma di T.W. Adorno [Adorno, 1966] per raccogliere la cifra del rivolgimento apportato dal grande compositore quale demiurgo di una nuova società. La musica di Wagner intrattiene infatti un legame morboso col popolo per cui è pensata. «La redenzione dell'artista avviene nel seguire la necessità naturale imminente, che risiede interamente nel Volk» [Wagner, 2016, p. 136]. Qualcosa di simile ad Happy di Pharrell Williams - videoclip e fenomeno di costume diretto dal designer e videoartist francese Yoann Lemoine per conto del collettivo We Are From LA? Ed ancora: «l'opera d'arte comune dell'avvenire. In essa il nostro grande benefattore, colui che, in carne e ossa, rappresenta la necessità, il popolo, non sarà più qualcosa di particolare, di differente. Nell'opera d'arte saremo un solo essere, saremo coloro che recano e indicano la necessità, coloro che sentono l'incosciente, vogliono l'involontario; saremo i testimoni della natura, cioè degli uomini felici.» [Wagner, 2016, p. 138]. Forse che Wagner non approverebbe la diffusione di Happy come colonna sonora di un popolo sovranazionale? Più chiaro, ora? I luoghi della musica sono cambiati tanto quanto i compositori. Quanto al pubblico, siamo passati alla ricezione di massa in grado di assicurare finanche la tutela delle minoranze. Il punto è se questa arte pura, nella sua divisione, tenda all'estetizzazione della quotidianità. 4. John Cage Alla sponda opposta, quella della politicizzazione della quotidianità, troviamo John Cage e la sua razionalità sovversiva, il suo carattere così poco reazionario. «La liberazione – è stato scritto con definitivo rigore – è Cage. L’opera del maestro americano è stata affrontata, anche dai più valorosi, sul piano della rottura. […] Cage toglie al gesto dell’uomo i tradizionali sostegni, e trova così in esso un oggetto a riflessione senza fine. Annullando la falsa tradizione, l’attaccamento pauroso all’ultimo anello della catena, Cage ritrova la verità della tradizione in una dilatazione progressiva del significato, ma in un ordine inverso e spinto fino all’esplosione. Ciò che salta è l’inganno classicistico della forma quale pace perpetua, la riduzione dell’idea a supporto indifferente. La condizione dell’oggetto estetico diviene in Cage quella che Benjamin pensava fosse il rapporto con la traduzione: le traduzioni, e cioè le interpretazioni, non sono, a Cage, soltanto essenziali. Sono l’opera stessa. L’idea è la traducibilità» [Bortolotto, 2008, pp. 97-98]. In altre parole, Cage ha pensato la musica della storia. Purtroppo molti lo conoscono solo superficialmente; molti altri, soprattutto musicisti, lo considerano ancora un ciarlatano o si ostinano a voler vedere in lui solo la musica. Certo, basterebbe intuissero che sotto c'è qualcosa di più complesso che non la musica soltanto. Ma anche tutto quello che significa o non significa: Cage ha aperto campi di possibilità all’invenzione del suono, impartendo un cambio di rotta ad una storia a forte rischio di reificazione. Trattasi proprio dell'invenzione dal verbo in-venio. Se ti ci puoi imbattere dappertutto, allora, questo materiale è sempre, nuovo. L'operazione così seria di Cage, tanto vicina alla filosofia di Wittgenstein [Wittgenstein, 1983, p. 86] quanto all'antica saggezza dell'I-ching [I-ching, 1991], interroga costantemente un fruitore che non vive più della separazione rispetto al suono, che viene così responsabilizzato come esecutore attivo. Gli studi su John Cage si perdono e sono sempre in divenire, ma può essere utile per il lettore partire dagli scritti di John Cage [Cage, 2010]: un continuo porre domande, così come aveva tratto dall’esperienza con quel maestro, Arnold Schoenberg[1], che così tanto aveva influenzato la così poco precedente storia della musica con la sua tecnica dodecafonica. Conclusioni La musica di oggi sembra nata per soddisfare risposte. L'apparenza estetica si confonde con la sua funzione anestetizzante. Questo mentre aumentano i dispositivi mediante i quali autocontrollarci, utilizzati così tanto nella funzione per cui sono pensati, da non esser quasi per nulla indagati in direzione di un ri-orientamento del mezzo. Siamo di fronte ad un’ignoranza culturale dettata da una forte ingenuità tecnologica. La supposta neutralità dell'arte, la supposta neutralità dei mezzi condiziona le nostre vite proprio perché la supposta neutralità di entrambe si è rivolta al nostro intrattenimento, al nostro goderne nella distrazione, magari proprio nel tempo libero. L'industria della musica si è allargata a dismisura, inserendosi nelle nostre vite senza il nostro permesso, ma col nostro consenso. Sembra rispondere alla necessità di isolamento derivata dalla necessità di mantenere una dimensione privata, ad esempio, proprio quando c'è un sacco di gente intorno a noi. Ora, che la musica sia una cosa seria, lo pensava pure il buon Platone con tutto quel suo scrivere a proposito dei diversi modi nella sua utopia politica dal titolo La repubblica[2] - se a Pino Daniele piaceva il blues, lui voleva solo il dorico -. Possiamo concludere affermando che quando la musica incontra la società, e questa le conferisce significato, diventa una cosa seria per davvero. In sé il suono non significa niente; per sé, non risponde a nessuno. In questo scarto c'è tutta la differenza che intercorre tra le due esperienze artistiche tirate in ballo, che ho soltanto tentato di inquadrare, senza esaurire la ripresa di questi movimenti. In disparte c’è tutta la questione della forma, del materiale. In quello ci lasciamo guidare da chi ha contrapposto l'apertura del gioco alla garanzia del risultato. Bibliografia Adorno T.W. (1966), Wagner, trad. it. M. Bortolotto, Torino, Einaudi. Bortolotto M. (2008), Fase seconda, Milano, Adelphi. Cage J. (1996), Lettera a uno sconosciuto, trad. it. F. Masotti, Roma, Socrates. Cage J. (2010), Silenzio, trad. it. G. Carlotti, Milano, Shake. Horkheimer M., Adorno T.W. (1969), Dialettica dell’illuminismo, trad. it. R. Solmi, Torino, Einaudi. I-ching (1991), Il libro dei mutamenti, trad. it. B. Veneziani e A.G. Ferrara, Milano, Adelphi. Platone (2009), Repubblica, trad.it. R.Radice, Milano, Bompiani. Ross A. (2016), Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, trad. it. Andrea Silvestri, Milano, Bompiani. Wagner R. (2016), Il giudaismo nella musica, trad. it. L. V. Distaso, Milano, Mimesis. Wittgenstein L. (1983), Ricerche Filosofiche, trad. it. R. Piovesan e M. Trinchero, Torino, Einaudi. [1] John Cage: «Comporre, per me, nasce dal fare domande. Mi viene in mente un aneddoto che risale a tanto tempo fa, quando ancora frequentavo i corsi di Schoenberg. Ci chiese di andare alla lavagna per risolvere un particolare problema di contrappunto (sebbene fosse una lezione di armonia), e disse: «Quando avrete trovato la soluzione, voltatevi e fatemela vedere». Fu ciò che feci. Poi mi chiese: «E ora mi faccia vedere un’altra soluzione, per favore». Gliene diedi un’altra e poi ancora un’altra fino a quando, alla fine, dopo la settima o l’ottava, mi fermai a riflettere per un attimo e poi dichiarai con una certa sicurezza: «Non ci sono più altre soluzioni». Lui disse: «Va bene. E qual è il principio che sta alla base di tutte le soluzioni?». Non sapevo rispondere a questa domanda; ma avevo sempre venerato l’uomo, e in quell’istante lo venerai, se possibile, ancora di più, come se si elevasse di fronte ai miei occhi. Ho passato il resto della mia vita, fino a poco tempo fa, riascoltandolo formulare di continuo quella stessa domanda. E poi, grazie alla direzione che il mio lavoro ha imboccato, e che consiste nella rinuncia alle scelte sostituite dalla formulazione di domande, compresi che il principio sottostante a tutte le diverse soluzioni che gli avevo dato consisteva proprio nella domanda che lui mi aveva posto, perché non c’era nient’altro che potesse spiegarne l’origine. Penso che avrebbe accettato quella risposta. Le risposte avevano in comune la stessa domanda. Di conseguenza è proprio la domanda l’elemento comune alle risposte.» [Cage, 1996, p. 105]. [2] «E dunque, quando uno consegna la propria anima alla musica, perché questa gliela ingentilisca al suono del flauto e le istilli per il tramite delle orecchie, come attraverso un imbuto, quelle dolci note languide e lamentose di cui poco fa parlavamo, e in tal modo, fra un gorgheggio e l’altro, deliziato passi l’intera vita, allora, come succede col ferro, sulle prime riesce ad ammorbidire quella certa qual era in qualcosa di utile. Ma se questo medesimo uomo non pone un termine a un siffatto stato di cose e invece continua ad abbandonarsi a una tale seduzione, a lungo andare finisce col fondersi, col liquefarsi, fino a svuotarsi di ogni energia, starei per dire, recidendo le nervature dell’anima; così la musica lo trasforma in un molle.» [Platone, 2009, p. 405].
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