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I luoghi del gesto: la sala di danza

30/1/2023

 
ilgiornaledikinetès_n8_2023_marchesano.pdf
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di Maria Virginia Marchesano
 
La tipica lezione di tecnica classica accademica[1] dura generalmente da un’ora e mezza a due ore ed è pensata per preparare il corpo del danzatore ad affrontare il palcoscenico. Essa è suddivisa in due momenti fondamentali: la prima parte si svolge alla sbarra e ha una durata di circa tre quarti d’ora; la seconda parte, invece, si svolge al centro della sala.
La sala di danza è il luogo in cui il danzatore apprende quell’affascinante e complesso vocabolario di movimenti che compone il linguaggio di quest’arte, perché qui studia e incorpora il codice della danza classica. È paragonabile a una bottega, un laboratorio in cui sperimentare e apprendere l’arte, per poi applicarla nel momento dell’esibizione pubblica sul palcoscenico.

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In verità, la sala apre una dimensione che, per i danzatori, può essere paragonata quasi a quella religiosa, a una pratica di tipo mistico e spirituale: è la dimensione del rito, lo spazio di una “cerimonia” quotidiana, in cui la lezione rinnova una gestualità codificata che ha lo scopo di riallacciare il corpo alla mente e allo spirito. Si può parlare a tutti gli effetti di una forma di meditazione. Maurice  Béjart in Lettere a un giovane danzatore così afferma:
si entra in sala di danza come si entra all’interno di un tempio, nella moschea, nella chiesa, nella sinagoga, per ritrovarsi, riallacciarsi[…] unificarsi.[2]
La lezione, di fatto, inizia prima ancora di entrare in sala, con una serie di veri e propri gesti rituali, a cominciare dalla cura e dalla rigorosa scelta di un abbigliamento semplice e funzionale; la cura che si prende nella preparazione della tipica acconciatura femminile, lo chignon; l’esattezza che si deve porre nell’atto di allacciarsi le scarpette. Quando poi si entra nella sala di danza, occorre la giusta disciplina e una disposizione spirituale. Bisogna essere concentrati e muoversi con grazia, scegliere il proprio posto e collocarsi nello spazio, anche in relazione alle altre persone presenti, con la giusta consapevolezza e discrezione.
Sarebbe auspicabile entrare in sala sempre prima dell’arrivo dell’insegnante, non solo per una forma di rispetto di antica memoria ma anche perché l’allievo, in questo modo, ha la possibilità  di raccogliersi e di iniziare un riscaldamento con esercizi mirati alla propria persona, prima di cominciare la lezione vera e propria. Anche questo tipo di riscaldamento informale ha una funzione molto importante, quasi catartica: l’allievo si predispone spiritualmente all’ascolto di sé, sentendo ciò di cui il proprio corpo ha bisogno per prepararsi alla lezione di danza.
La révérence, l’inchino in apertura e in chiusura della lezione (nei corsi avanzati l’inchino finale è convenzionalmente sostituito da un applauso), sottolinea l’ingresso in un tempo dedicato, caratterizzato dalla cura e dalla gratitudine nei confronti del maestro e della danza stessa, per l’occasione di quel tempo particolare che è definito dalla dimensione della lezione. La riconoscenza nei confronti del maestro nasce dalla consapevolezza  della  possibilità che questi ha di “donare” attraverso la sua presenza: l’insegnamento elargito è un atto d’amore che consente all’allievo di fiorire, di rinascere alla danza.
Quando finalmente si chiude la porta della sala, si entra in una dimensione altra, lasciando fuori il mondo (le preoccupazioni, gli affanni, i desideri ecc.), per concentrarsi e dedicarsi unicamente al proprio corpo e  al proprio spirito attraverso la danza. È in questo senso che vanno lette le parole di Béjart, il quale  vede la sala  come un tempio, una sorta di recinto sacro che tiene fuori il mondo e che è consacrato solo a quest’arte, esattamente come il danzatore che è anima e corpo votato alla danza.
Ogni sala dovrebbe essere dotata di arredi particolari, che sono imprescindibili: un pavimento adeguato, la sbarra, lo specchio, l’orologio, il pianoforte.
Il pavimento di una sala di danza deve avere caratteristiche precise. Deve essere abbastanza elastico da rispondere alle sollecitazioni dei corpi che danzano, per cui occorre un particolare parquet di legno poggiato su  un piano rialzato, separato dal pavimento sottostante da una camera d’aria; al di sopra del parquet vi è un tappeto di linoleum, quello che si usa normalmente sul palcoscenico. Un pavimento che non risponde a questi requisiti tecnici può causare col tempo dei danni irreversibili alle articolazioni del danzatore, proprio per il cattivo assorbimento degli urti.
Talvolta può sembrare che il pavimento sia un elemento secondario. Soprattutto nella danza classica, si ha l’errata percezione del pavimento come di un elemento di cui liberarsi definitivamente: il ballerino di danza classica “sfiora” il pavimento, si eleva e se ne libera. Tuttavia, a ben guardare, il rapporto col pavimento è cruciale ed è fondamentale per il bravo danzatore: come un fiore che può sbocciare solo se la pianta ha salde radici nel terreno, così il danzatore può fiorire, elevarsi e librarsi in aria, solo se sa sfruttare correttamente la spinta ascensionale ricavata dal radicamento e dalla spinta dei piedi sul pavimento. Quanto più riesce a usare correttamente il pavimento, tanto più il danzatore sa sfruttare la forza di gravità a proprio vantaggio. La spinta ascensionale sfruttando la pressione dei piedi sul pavimento, ricava una forza uguale e contraria verso l’alto funzionale all’elevazione del corpo e alla costruzione dell’allineamento posturale.
Il danzatore dovrebbe servirsi di tutte le dita dei suoi piedi come tanti rami il cui divaricamento sul suolo aumentando lo spazio del suo appoggio rinsaldi e mantenga il suo corpo nell’equilibrio giusto e conveniente; se egli trascura di distenderli, se egli non fa presa con le tavole del palcoscenico per aggrapparglisi e tenersi fermo, incorrerà in una sequela di incidenti. Il piede perderà la sua forma naturale, esso si arrotonderà e vacillerà senza posa e di lato, dal piccolo dito all’alluce, e dall’alluce al piccolo dito: questa specie di ondeggiamento causato dalla forma convessa che l’estremità del piede prende in questa posizione, si oppone a ogni stabilità.3
Il pavimento è dunque il primo sostegno per il danzatore e il rapporto tra i due si configura come un corpo a corpo che trova il suo coronamento in una dimensione molto fisica, quasi erotica. Il pavimento si tocca, si sfiora, si spinge, si respinge, si accarezza. Come afferma Béjart, occorre ignorare il pavimento, dimenticarsene, ma ignorarlo con astuzia: in realtà, egli suggerisce:
devi ignorarlo servendotene ampiamente. Di più: Con il pavimento, contro il pavimento, sul pavimento, al di sopra del pavimento. Danza.4
L’orologio è un elemento tanto poco appariscente quanto molto importante. È preferibile che l’orologio sia sobrio, non ingombrante e non rumoroso. Solo il maestro dovrebbe guardarlo, per gestire i tempi della lezione, mentre si suppone che l’allievo sia completamente immerso nella pratica degli esercizi. La puntualità è da ritenersi sacra: non a caso, se l’allievo entra in ritardo, il maestro potrebbe non consentirgli di partecipare attivamente alla lezione. In effetti, l’orologio ha, nella sala di danza, la funzione di delimitare il tempo dedicato alla danza, isolandolo dal resto della giornata. L’allievo deve esserne rapito, in qualche modo, affidandosi interamente al maestro, che dall’inizio della lezione scandirà i tempi e gestirà quel tempo peculiare che è, appunto, il dono del proprio corpo alla danza.
Il pianoforte, solitamente collocato nell’angolo destro della sala, contribuisce a produrre un altro tempo, quello della musica, quello del respiro stesso della danza, il ritmo. La presenza di un pianoforte in una sala di danza non può in ogni caso essere sostituita dalla musica di un CD, poiché il maestro di danza, collaborando col pianista accompagnatore, ha la possibilità di progettare gli esercizi giusti e abbinarli ad un accompagnamento musicale adeguato: la melodia, il tempo, il ritmo possono essere strutturati alla perfezione soltanto grazie a questo strumento. Dal punto di vista dell’allievo, il pianoforte consente di entrare in perfetta sintonia con la musica, imparando ad accordarsi interiormente ai tempi scanditi dalla melodia in un incontro “dal vivo”, un momento irripetibile, volta per volta unico; un tempo che, appunto, non potrà mai essere sostituito da una musica registrata. Dal momento stesso in cui il maestro dà il segno del levare, si apre una dimensione temporale altra, sottolineata da una  sospensione paragonabile al levarsi della bacchetta di un direttore d’orchestra, una pausa che, come il silenzio che cala sull’orchestra, segna l’avvio dell’esercizio.
In questa sospensione segnata dal levare, in questa sorta di dilatazione temporale caratterizzata dall’inizio del silenzio, i respiri si armonizzano accordandosi a quello del maestro, del pianista accompagnatore, ai respiri dei danzatori presenti in sala. In una tale epoché si può avvertire la “propria” musica interiore: una musica caratterizzata dal ritmo dettato dai battiti del proprio cuore che si accorda anch’esso agli altri, così come il battere e il levare dell’inspirazione che si alterna all’espirazione, in una sinfonia silenziosa e intima.

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Come danzare davanti a un muro se la sala danza non ha uno specchio? Senza dubbio anche nell’immaginario collettivo sarebbe difficile pensare a una sala di danza senza specchi, per quanto in alcune scuole si preferisca evitarlo. Lo specchio ha una valenza importante in fase di apprendimento, sebbene occorra avere piena consapevolezza dei vantaggi e degli svantaggi che esso comporta e farne un uso corretto. Lo specchio offre, in primo luogo, la possibilità di osservare i propri movimenti come li vedrebbe il pubblico e questo consente di correggerli e affinarli. Esso dovrebbe essere collocato su una parete della sala proprio con lo scopo di fornire un orientamento rispetto a un immaginario pubblico. Per questo non è corretto disporre gli specchi su tutte le pareti, come pure accade in alcune scuole. Béjart parla dello specchio come di un “falso amico, di un traditore”[5] in quanto il danzatore che rivolge più del dovuto il proprio sguardo allo specchio potrebbe distoglierlo dal sé per confondersi e perdersi nell’immagine riflessa. Lo specchio va utilizzato, come afferma Agrippina Vaganova, per auto-correggersi e migliorarsi e per avere un’immagine complessiva del corpo in movimento e non per ammirarsi né tantomeno per autocensurarsi.[6] Oltretutto, da un punto di vista strettamente funzionale, spostare lo sguardo dalle direzioni richieste ogni volta dal gesto compromette l’assetto e l’equilibrio del corpo tanto da avere la responsabilità  di inficiare gravemente l’esecuzione della danza  in palcoscenico. In palcoscenico non c’è lo specchio, ma il pubblico, che è un “buco nero”. Per tale ragione il maestro potrà servirsi dello specchio per avere una visione complessiva della classe in movimento e dovrà educare l’allievo  a  utilizzarlo con intelligenza e parsimonia. Un buon maestro riuscirà, inoltre, a fare immaginare nell’allievo una sorta di specchio interiore. Quando l’allievo riuscirà ad attivare, attraverso l’esercizio della propriocezione, una sorta di occhio interiore, allora finalmente potrà vedere e vedersi. La fatica è tutta lì, nel sostituire allo specchio appeso al muro lo specchio dell’autocoscienza.
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E infine ecco “lei”, la sbarra: un oggetto di legno con cui il danzatore classico avrà a che fare per tutta la vita. Uno dei primi trattati nei quali compare un riferimento a quello che potremmo definire l’antesignano della sbarra è Le Gratie d’Amore, del 1602, nel quale il maestro e trattatista Cesare Negri suggeriva di appoggiarsi a una sedia per facilitare l’apprendimento di un movimento:
la capriuola in terzo s’impara facilmente appoggiandosi con le mani a qualche cosa che sia commoda e tenendo il piè sinistro dinanzi al destro, tanto che il calcagno del sinistro giunga tre dita alla punta del piè destro poi alzádoli sù la forza delle braccia.[7]
La sbarra ha dunque una funzione di supporto: essa consente, secondo Agrippina Vaganova, di sviluppare la muscolatura delle gambe in modo variato, il che vuol dire «la rotazione, l’apertura, il plié [...], l’impostazione del corpo, delle braccia e della testa, la coordinazione dei movimenti»[8]. Inoltre, «come risultato dell’allenamento quotidiano, il corpo acquisisce compostezza e sviluppa l’equilibrio, cosicché il futuro danzatore si abitua alla giusta distribuzione del peso del corpo su due gambe e su una».[9]
Da queste parole, che riassumono efficacemente il ruolo di questo elemento nella lezione di danza classica, si comprende quanto importante sia per un danzatore la pratica della sbarra: un’esercitazione che lo accompagnerà per tutta la carriera, poiché è proprio alla sbarra che si acquisiscono le lettere fondamentali di quello che può essere definito l’alfabeto della danza classica.
In qualche misura, ogni volta che il danzatore si pone alla sbarra,  riparte da zero, ricominciando dai primissimi mattoni di quella  costruzione, che dev’essere ripresa da capo ogni giorno, in una sorta di esercizio spirituale quotidiano che richiede grande apertura, oltre che disciplina, e umiltà: nessun danzatore, infatti, sarà mai tanto bravo da non dover “ripulire” e perfezionare ogni giorno tutti i suoi movimenti o le sue pose, a cominciare dalla prima posizione dei piedi.
Ancora Maurice Béjart sottolinea l’importanza del lavoro quotidiano alla sbarra, che egli paragona a un esercizio e una pratica spirituale come lo yoga:
la lezione quotidiana di danza, di qualunque stile, di qualunque tecnica essa sia, non deve avere per obiettivo l’acquisizione di un nuovo virtuosismo né l’insistenza su quello già concepito. Non è una ginnastica, è una presa di coscienza. Conoscere il proprio corpo, guardarlo attraverso questa visione interiore dell’occhio del corpo, sapere esattamente perché sono qui, perché avanzo, perché mi fermo, perché tale braccio fa tale gesto.[10]

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[Le illustrazioni, tratte dal volume Dalla sala al palcoscenico: il linguaggio gestuale della danza classica, di Maria Virginia Marchesano, sono a cura di Rosa Catalano © Tutti i diritti sono riservati, ne è vietata la riproduzione]


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1.  Per un approfondimento sui luoghi del gesto e più in generale sul linguaggio della danza classica si rimanda a M.V.Marchesano, Dalla sala al palcoscenico: il linguaggio gestuale della danza classica, Kinetès Edizioni, Benevento 2022.
2.  M. Béjart, Lettere a un giovane danzatore, Lindau, Torino 2011, p. 32.
3.  J. G. Noverre, Lettere sulla Danza, Di Giacomo Editore, Roma 1980, p. 93.
4.  Ivi, p. 37.
5.  Ivi, p. 34.
6.  V. S. Kostrovickaja ,A. A.Pisarev, La scuola russa di Danza Classica Metodo Vaganova, Gremese, Roma, 2007, p. 14.
7.  C. Negri, Le Gratie d’Amore, [s.n.] Milano 1602, p. 81. Negri aveva individuato nove tipi di capriole semplici e dieci tipi di capriole spezzate in aria. La capriola semplice è riconducibile alle battute di entrambe le gambe, antenate degli attuali entrechat. Le capriole spezzate, invece, sono battute di una gamba sull’altra, e sono riconducibili agli attuali grands pas battus.
8.  V. S. Kostrovickaja, A. A. Pisarev, La scuola russa di danza classica. Metodo Vaganova, cit., p. 11.
9.  Ibidem.
10.  M. Béjart, Lettere a un giovane danzatore, cit., pp. 21.

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Maria Virginia Marchesano

Laureatasi con lode presso l’Accademia Nazionale di Danza è docente di Tecnica della Danza Classica presso il Liceo Coreutico Statale “E. Pascal” di Pompei e socia Airdanza (Associazione Italiana per la Ricerca sulla danza). Come danzatrice ha lavorato accanto a coreografi come Luc Bouy e Susanne Linke, e registi come Franco Zeffirelli. È autrice de “I sentieri del gesto”, l’ArgoLibro Editore, Agropoli, 2017. Cura la rubrica “La danza e le sue parole”per «GBopera Magazine» ed è autrice (settore danza) per «Live – Performing & Arts». È inoltre autrice e coreografa di progetti teatrali (Quello che la primavera fa con i ciliegi, Platero ed io, Deserto, Victor e Joan: una storia d’amore). In collaborazione con AIRdanza, CeSAL (Centro di studi sull’America Latina) e L’Università “L’Orientale” di Napoli organizza la giornata di studi “Joan Turner Jara”.


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