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Gaetano Cantone, Una via silente, arrovellata (e casta) alla bellezza, Guida Editori, Napoli 2017

30/1/2018

 
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di Patrizia Bove
 
 
La cerimonia di premiazione della 15ª edizione del Premio letterario Letizia Isaia, organizzato dall’Associazione Nazionale “Luci sulla cultura”, si è tenuta lo scorso 23 ottobre 2017 presso la Camera dei Deputati, in Palazzo Montecitorio, in una gremita Sala della Lupa.
La giuria, composta da Maria Chiara Aulisio, Nicola Capuano, Vincenzo
Giunta, presidente Letizia Isaia, ha nominato i vincitori nei diversi ambiti.
Vincitore del premio per la Sezione Saggistica /Autori è stato il saggio Una vita silente, arrovellata e (casta) alla bellezza dell’architetto Gaetano Cantone, Guida editori.
Questa la motivazione della giuria: «Per un saggio che affronta temi e linguaggi dell’arte con rigore culturale, sorretto da una raffinata scrittura che coniuga bellezza e memoria».

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​Gaetano Cantone (1951) è architetto, artista, designer e pubblicista. La sua produzione è sostenuta da intense ricerche disciplinari con approfondimenti teorici nel solco della complessità. Tra i suoi volumi De brevitate artis (1998), La bellezza inquisita (2008).
Numerose le mostre personali, tra cui Le tracce del Nauta (1995-1998, Napoli, Siena, Benevento, Gesualdo), Mater/Venus (2006, Napoli) e collettive tra cui Caos e bellezza (Genova 1991, Domus Academy), Exploratorium (Firenze 1991, Electa), Voi non siete qui (Bergamo, Siena 2005-2006, Skira). Omar Calabrese lo ha inserito tra gli artisti iniziatori del Neobarocco.
 «Nulla dies sine linea»: è con questa locuzione latina che Gaetano Cantone conclude la sua conversazione con la sottoscritta, riaffermando la necessità dell’esercizio quotidiano per il raggiungimento della perfezione. Gli sono molto grata per questo pro- memoria elegante, non solo per l’opportunità che mi offre di soffermarmi sulla bellezza e sull’efficacia della lingua latina, ma anche per lo spunto di riflessione che ben si adatta all’argomento del nostro discorso.
Stavamo parlando di Massimo Rao, pittore instancabile e proficuo proprio come Apelle a cui duemila anni or sono, Plinio il Vecchio ha dedicato la locuzione in oggetto. Apelle, racconta Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale «non lasciava passare un giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea» e, con un sorriso, non posso non ripensare all’amico pittore e alla sua intensa attività di artista.
Intensa è anche l’attività professionale di Gaetano Cantone: artista, architetto e designer; ha fondato e presiede tuttora l’Istituto italiano per lo studio e lo sviluppo del territorio. Parlare con Cantone di arte significa immergersi nella bellezza e la via della bellezza - citando il nostro amico - «a volte è faticosa e porta pure le lacrime». Le lacrime a cui Egli fa cenno però non sono l’espressione romantica dell’estasi provocata di fronte ad un’opera d’arte, ma sottintendono la tensione suscitata dalla riflessione sui tanti punti interrogativi che ci inquietano e ci tormentano invitandoci a ritrovare valori, morale, consapevolezza e approfondimento culturale nella «libertà della conoscenza».

Nel suo saggio su Massimo Rao Cantone ci conduce attraverso tutti questi percorsi valoriali facendoci approdare con naturalezza al concetto di Bellezza.
Chi si appresta a leggere il libro, prima ancora di leggerne il contenuto, resta colpito dal titolo del lavoro Una via silente, arrovellata e casta alla bellezza, sottotitolo Ricomposizioni iconografiche nell’opera pittorica di Massimo Rao.
Il titolo dunque fa già presupporre un intervento importante che non prende in esame solo l’opera pittorica di Massimo Rao, ricomponendola appunto in maniera disciplinata, ma che attraverso la storia dell’arte, la sociologia, l’antropologia culturale, tenta di spiegare le mutazioni avvenute nell’arte nella seconda metà del Novecento fino ad arrivare alla pittura post-moderna, nel cui alveo è compresa l’arte di Rao.
Si  capisce  immediatamente  quindi  che  questo  saggio  è  un  lavoro  organico,  rigorosamente scientifico, da considerarsi unico ed originale. Nessuno prima di Cantone ha trattato il tema della pittura di Rao in maniera così completa e questo contributo così importante si pone come punto di riferimento fondamentale non solo per gli estimatori dell’arte del pittore sansalvatorese, ma per tutti coloro che intendono avvicinarsi alla storia dell’arte contemporanea.
Molti sono gli aspetti di questo saggio che meritano di essere approfonditi così come tanti sono i “punti di svolta” del testo. Uno di questi è certamente quello che riguarda l’Errante.

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L’Errante: tipico eroe romantico teso alla perenne ricerca
della libertà ed anche l’intellettuale che più di tutti coglie le profonde mutazioni del tempo in quanto dotato di maggiore sensibilità e di una coscienza obiettiva, libera da pregiudizi. Questa figura richiama alla memoria Dante e soprattutto i grandi del Romanticismo Italiano che hanno proiettato nelle proprie opere il dissidio con la società, identificandosi con
l’eroe romantico volto alla perenne ricerca della libertà.
Ma chi è l’Errante? L’Errante - cito Cantone - «è sovraccaricato di dubbi anziché di certezze ed è privo delle risposte provenienti dagli abachi contenuti nei manuali ideologici. L’errante interroga i confini, li esplora, li scandaglia con pazienza conoscendone la loro natura ameboide; l’errante pone al centro della riflessione sulla realtà anche la vitalità degli altri confrontandovi il proprio
bagaglio…».
L’Errante lascia tracce sul suo faticoso cammino e, come descrive in modo eccellente Cantone, scandaglia. Scandagliare: un’altra parola meravigliosa che sottintende la fatica della conoscenza, quella vera, non superficiale. L’Errante infatti si muove, non ha certezze granitiche, nutre ed alimenta il dubbio  come  metro  di  misura  delle  cose  e  metodo  di
conoscenza. L’Errante scava, rincorre, paragona, coniuga. Mette a confronto il presente con il passato e forse immagina anche il futuro, cogliendo i segni dei tempi e a volte anticipando i tempi, cercando nelle teche del sapere, con un lavoro di conoscenza e di comprensione non acritica, di arricchire sé stesso e, di conseguenza, gli altri.
Questo elemento identitario Cantone lo ritrova nel lavoro degli artisti del secolo scorso in grado, a suo avviso, di ricongiungere produzione individuale ed immaginario collettivo. In Rao è proprio il dubbio, secondo l’accurata analisi di Cantone, a segnare i movimenti dei personaggi, influenzando anche il movimento dei corpi all’interno della sua produzione artistica. Insomma, Cantone riconosce in Rao uno stile che si rifà in maniera forte a questi elementi e, a mio avviso, non c’è complimento più grande che si possa fare ad un’Artista.
Ma questo è solo uno dei “punti di svolta” del saggio.
Nel suo lavoro Cantone non lascia in ombra alcun aspetto della pittura di Rao: luoghi e dunque paesaggi, icone, simboli, posture, drappeggi, copricapi, insomma tutte le tipologie della rappresentazione dell’arte di Rao è portato in luce, valutato, contestualizzato, sottoposto al suo attento giudizio. Il suo occhio critico però non è mai saccente, anzi le sue osservazioni sono discrete, si avvicinano all’arte del pittore quasi in punta di piedi, con il rispetto che un Artista riconosce ad un altro Artista, quando lo ritiene degno di nota.
Massimo Rao è definito, dalla maggior parte dei critici, un pittore post moderno, intendendo per tali gli artisti che alla fine degli anni Settanta, inizio degli anni Ottanta, guardano alla tradizione come ad un importante patrimonio culturale da rivisitare in chiave moderna.
Questa operazione culturale, a cui si è avvicinato in quegli anni il pittore sansalvatorese, non è solo una citazione del passato, ma è soprattutto una revisione critica dell’arte moderna che sembrava aver esaurito ogni possibilità di sviluppo.
Gaetano Cantone nel suo saggio parla di officina operosa e pensosa di Massimo Rao sottolineando il suo rovello nel disegno e ascrivendo il pittore tra quegli artisti che hanno scelto la strada impervia, non alla moda e non di facile accesso, di una tecnica raffinata, frutto di un importante lavoro laboratoriale. Cantone, come ha già fatto Sgarbi parlando di urgenza del disegno in Rao sostiene dunque la tesi di un Artista che si è costantemente misurato con la propria arte e che ha lavorato tantissimo per affinare la tecnica.
Questo modo di fare arte pone Rao in una posizione autonoma nel panorama del post moderno perché la memoria dell’antico persiste nella sua arte come «interlocutrice stabile della conoscenza… un’eredità con la quale ci dobbiamo confrontare» (cit. Autore). In Rao, però, l’operazione di recupero del già detto, viene decodificata in modo del tutto personale attraverso il suo mondo interiore, quello che Gaetano Cantone chiama consapevolezza di un linguaggio strutturato.
Sul mondo interiore di Massimo Rao, o sulla consapevolezza di cui parla il nostro amico, mi soffermo
un attimo passando dall’Artista all’Uomo, all’amico fraterno con cui ho condiviso gli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza. Io sono dell’idea che si trasferiscono solo le emozioni che si possiedono; che non si può essere grandi artisti (scrittori-pittori-poeti…) senza avere una grande ricchezza interiore. E Massimo Rao possedeva un mondo interiore molto ricco, ma anche molto
complicato perché mediato attraverso i tanti dolori che la vita gli aveva riservato.
Appena adolescente aveva perso sua madre, una figura importante che racchiudeva in sé non solo il ruolo di colei che lo aveva generato, ma che rappresentava la persona a cui lui maggiormente assomigliava e con cui condivideva le stesse fragilità, ma anche la stessa sensibilità ed intelligenza emotiva. Il dolore per la sua morte accompagnerà il mio amico per sempre e sarà esasperato dalla solitudine interiore a cui sono destinate le persone la cui diversità viene percepita come un ostacolo ad una normale vita di relazione. Eppure sarà proprio questa diversità che renderà preziosa ai nostri occhi la sua persona perché, se è vero che nei piccoli paesi il pregiudizio la fa da padrone, è anche vero che
l’amicizia - quella vera - si esprime con vigore e non teme commenti né allusioni. Che sarebbe diventato un grande artista noi amici lo avevamo intuito già prima che diventasse famoso e ben presto anche il paese natio ha dovuto prenderne atto ed i pregiudizi hanno lasciato il passo all’orgoglio ed al riconoscimento.
Il suo mondo difficile, tormentato e sofferto resta però impresso sulle sue tele e rapisce chiunque si avvicini ai suoi quadri, suscitando nello spettatore smarrimento e riflessione. Dei suoi personaggi (metafisici? surreali?) Cantone dice: «non esistono se non nella maniera con cui l’Artista li ha convocati sulla tela…non sono pensabili fuori da una scena che li contiene, non possono essere declinabili con altre cromie…» e sostiene sommessamente la tesi di un’artista che «attende la visita dei propri fantasmi esprimendo egli stesso profonda stupefazione per quanto accade».
Rao stesso diceva di loro: i miei personaggi non fanno mai qualcosa di preciso e di riconoscibile ma semplicemente
sono e si portano addosso la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti.
La Luna, più di tutti, domina le sue tele. Non v’è modo di capire chi o che cosa si nasconde dietro quell’immagine a volte incombente, altre volte nascosta.
Cantone non ci dà una risposta ma si sofferma su una rappresentazione della Luna in un dipinto del 1987 in cui viene raffigurato un personaggio possente (definito dal nostro Autore nerboruto spaccalegna) che mostra una spalla denudata, si circonda di abbondanti vesti e, sulla capigliatura arrubinata adagia un copricapo dalla forma ruspante. «La parola LUNA, vergata come un’incisione sulla pietra, tenta una mediazione tra la fisicità del ritratto e l’evanescenza, forse effimera, forse tutta umana, che quel titolo impone al nostro immaginario» (cit. Autore).
La Luna, dunque, deve considerarsi un punto d’incontro tra il trascendente e l’immanente? Forse non lo sapremo mai, ma questa immagine certamente continuerà ad esaltare il fascino della pittura dell’Artista sansalvatorese che, a vent’anni di distanza dalla sua prematura scomparsa, continua a suscitare l’interesse di critici d’arte e spettatori.
Massimo Rao, definito da Cantone «patrimonio collettivo dell’intero Sannio», pittore volto alla ricerca inesausta della Bellezza, artista «fuori contesto» perché lontano dalle logiche meramente commerciali, lascia alle giovani generazioni una grande eredità di intenti, additando una strada difficile ma entusiasmante: quella di un lavoro intenso e costante.
Perché «Nulla dies sine linea»: è questa la strada per raggiungere la Bellezza!

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L' Autrice

​Patrizia Bove esordisce come scrittrice con Sognando l’America, racconto breve inserito nell’antologia letteraria Je suis chocolat; successivamente pubblica il romanzo storico- biografico Se bastasse un momento di gioia (Ed. 2000diciassette) con il quale riceve il Premio Nazionale Olmo e il Premio Upupa d’oro per le eccellenze sannite. Impegnata nel sociale, è membro di numerose associazioni culturali. Socia fondatrice del Rotary Club Valle Telesina, nell’anno 2007-2008 ha ricoperto la carica di Presidente in questo sodalizio. È socia fondatrice e membro del direttivo dell’Associazione Massimo Rao, che si occupa della promozione e della divulgazione dell’arte del pittore telesino. Scrive articoli per testate giornalistiche locali e nazionali. Ha prestato attività lavorativa quale funzionario presso il comune di San Salvatore Telesino (BN).


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