Fosca Mariani Zini, Tristia. Stati di usuale sconforto, Kinetès Edizioni, Benevento 2021, pp. 72.30/4/2021
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di Carla Cirillo È innegabile che grandi forme di lamentazioni esistenziali, comprese quelle poetiche, abbiamo come punto di partenza, come causa prima, un corrispondente desiderio e appetito vitale disattesi o frustrati. Altrimenti ci troveremmo ogni volta a parlare, sia che si tratti di saggistica che di filosofia o di letteratura, di un puro horror vacui tanto più terrificante quanto meno sostanziato e segnatamente innaturale. Ma esistono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni una filosofia, suggeriva un famoso inglese e, per questo, come leggiamo in TRISTIA, STATI DI USUALE SCONFORTO, ci si può trovare davanti a un eroico odio della vita in cui si sa scivolare nel buio e / Esaurite le fatiche inutili / Liberarsi del cavaliere / E del cavallo. Ma, appunto, si dovrebbe sapere essere eroici, se non proprio eroi, e sovvertire il noto assunto brechtiano della modernità per ritornare a un grande poeta della caducità, Reiner Maria Rilke che, invece, considera gli eroi semplicemente le vittime di destini crudeli o esseri talmente sensibili la cui esistenza è quasi insopportabile per la natura. ![]() O anche ricordare che Cesare Pavese definiva l’eroismo “l’assunzione del proprio destino”. Sono forti, infatti le opposizioni che emergono dal piccolo libro di poesia di Fosca Mariani Zini, prima di tutti quelli tra tensioni vitali e la incombenza della morte nella vita e quelli dell’amore e del disamore. Probabilmente l’autrice ha intuito che il suo libellus avrebbe originato letture polisemiche e ampie digressioni e, per arginarle o limitarle, ha scelto di reclamare la filiazione con un grande poeta della classicità latina: Ovidio e, in particolare con una sua opera copiosa, i TRISTIA, nel modo più diretto: prendendone il nome, nel suo caso, il titolo e facendolo seguire per differenziarlo (proprio come una figlia devota che non voglia poi essere confusa con il troppo grande genitore) dal sottotitolo STATI DI USUALE SCONFORTO. Seguiamo allora l’autrice con un modus operandi molto poco frequentato dai lettori e dai critici in generale, che concedono il minor spazio possibile all’autore di un’opera, a favore di ermeneutiche generalizzanti, accademiche o di correnti letterarie. Il parere dei critici è un parere ovviamente erudito e spesso avvertito delle tensioni scritturali ma, nel contempo, è comunque e sempre un parere parziale ma capace, purtroppo ahinoi, di essere determinante nel guidare o deviare dai testi lo sguardo di nuovi lettori. Thomas Stearn Eliot ha spiegato più volte che, per conoscere profondamente un poeta non occorre saperne la biografia ma piuttosto i gusti letterari, dunque dovremmo attraversare l’opera del poeta latino per approdare a questa poesia attuale, e forse non solo i TRISTIA, che è anche l’ultima e quindi quasi un compendio di tutte le splendide opere ovidiane. Ovidio è un grande maestro di poesia, ma verrebbe da dire, di vita, perché tutta la sua opera è un continuo spettacolare e elettivo dialogo con il mondo e la sua interpretazione. Come con Lucrezio, per Ovidio non si può davvero separare la poesia da una vera e propria ontologia o comunque da una filosofia del vivere che, per questo, cerca di proporsi come una dolceamara manualistica in versi dell’uomo e delle sue passioni e di tutto l’universo allora noto. Poeti come Ovidio e Lucrezio erano davvero, in qualche modo profondo, i legislatori del mondo come li sognava Percy Bysshe Shelley nel primo Ottocento. E in Ovidio, in particolare, sono celebrati l’eterna trasformazione del creato - Tutto si evolve, nulla si distrugge e in tutto il mondo non vi è nulla che persista, come scrive nelle Metamorfosi - poi l’amore e il disamore rispettivamente negli Amores e i Remedia amoris, per citare le opere principali. Sicuramente c’è stato un attraversamento e un approdo di molti sentimenti ovidiani nel libellus di Mariani Zini e una volontà di riproporre una poesia quanto più vicina all’esperienza della vita e alla sua storicità fondamentale e fondante avvertita dell’evidenza che ciò che la natura nega alla vista lo si può forse comprendere con l’intelletto, come afferma ancora il poeta. Un dantesco, finissimo ma complesso intelletto d’amore, molto spesso. Naturalmente non dobbiamo attenderci una ripresa pedissequa di Ovidio (la versificazione di Mariani Zini è moderna, cadenzata in versi brevi e essenzialmente ungarettiana nella stentoreità e efficacia di molte immagini, dalle leggere ma incisive metafore), quanto una ereditata lucidità di analisi poetica sorprendentemente attualizzata. GLI STATI DI ATTUALE SCONFORTO sono divisi in sei sezioni e tutte attente a declinare una forte compromissione fisica oltre che mentale e speculativa dell’essere umano con gli accadimenti dell’esistenza, anche attraverso una forma efficace di ethopeia, cioè di una poesia che comporta l’assunzione di voci altrui per esercizio di identificazione. Ad esempio, nella prima sezione, ALL’ORIGINE, Annunciazione e Pietà, sembrano una prima chiara immedesimazione emotiva sofferta con la madre di Gesù, colta nei due momenti cardine della propria vita, di quelli del Figlio e della intera umanità. E già in queste prime due poesie, il dolore della caducità informa e nutre tutte le parole: Mi fido delle rose/ Sanno cosa sono i roveri; Hai cambiato la mia collana di mirto / Con una corona di spine. E in Pietà: Era vero, allora. / Hai avuto paura/ Non ti abbiamo difeso / Sei rimasto accasciato / Non ti abbiamo abbracciato. Versi che potremmo ripensare rispettivamente in momenti in cui la gioia si contrappone al dolore o una morte appare ingiusta, o una sofferenza è inferta per ignoranza. La seconda sezione PRENDERE CONGEDO mi pare si connetta alla sesta e conclusiva SCORAMENTO, per un filo amoroso che tocca sia sentimenti amicali che la passione amorosa. E’ una poesia che trova facilmente le parole del corpo e sono parole efficacemente femminili e a forte componente visiva quelle che rigano la pagina in entrambe le sezioni attraverso il procedere degli anni: Abbozzo di seni/ Rigori di linfa / Il tuo sesso contro il mio / Nelle pieghe della stoffa (in Primo, se non ultimo amore); Mille di me / Erano tanti anni di te … Nei solchi delle rughe / Raccolgo le ombre del sole / Nella coppa delle mani / La giovinezza del mio perenne amore (in Rughe); e nella intensissima Menopausa: Ventre, mio Disertato dalla vita, seme, tuo, Fra le mie gambe Linfa traslucida e lenta Per toccarci l’anima Senza farci male. Non ho dimenticato Quando ero albero, Non pietra. Soprattutto in questa poesia è pressante l’assillo per il passare degli anni che minaccia di fare invecchiare l’amore (in un topos avvilente e comune della femminilità), di ferirlo. E tutto si scrive nelle rughe del corpo e del volto ma, in alcuni versi, solo la poetessa potrebbe dire di quale volto, poiché il tu della poesia potrebbe essere rivolta a se stessa nello specchio del libro: Dita incaute / Le tue eterne rughe (in Ai margini) mentre una forma di tempo si propone come una eccezione fisica in un Presente anteriore che sfida la pagina fino, forse, a farla contrarre. Ma chi potrebbe davvero dire che cosa è il tempo che viviamo dentro di noi, in quali modi può essere misurato e che cosa misura realmente? Proprio in queste due sezioni si apre uno spazio ovidiano: la poetessa in una presentazione del suo libro, ha parlato del diritto alla sofferenza, alla riflessione sull’irreparabile della nostra vita, se anche durasse all’infinito, anche se il corpo e l’animo dovessero piagarsi e, come sostiene il suo poeta nei TRISTIA, non si dovesse più avere spazio per una piaga. Si soffre fino a sanguinare:, Nel tuo filo spinato / Mi impiglierò i capelli / forse sanguineranno … La mia mano / Ha l’esitazione dei vecchi / Dita troppo fragili / A te fastidiose (in Fragili dita), e si elabora un pensiero terribile: Mi sorriderai domani? (in Tristi lenzuola). Qui dovrebbero soccorrere la conoscenza delle astuzie degli Amores e la speranza nei Remedia. Nella sezione LACRIMOSA, la terza del libro, si leggono versi di estrema attualità come Lettura di giornale e Bataclan dall’incipit pavesiano (e Pavese ha saputo scivolare nel buio!), in cui il destino delle molte vittime del tristemente famoso attentato al teatro parigino del 13 novembre si lega a quello di un singolo essere: Vedrò la morte e avrà i tuoi occhi Non sapevo fossero così curvati dall’odio Grumoso il sangue nelle mie mani Fluido nelle pozze per terra Mi accascio piano, piano Trattenendo i secondi ultimi prima di andarmene senza averti detto quanto ti amo Ti amai In un soffio dentro gli spari. Nella quarta sezione COMPASSIONE a una apertura marina delle due prime poesie segue una celebrazione dell’insonnia Insomnia felice, felice forse ancora perché la privazione del sonno è compensata dalla contemplazione dell’amato che ha mani pazienti capaci di modellare il corpo di una donna in complesse figure da origami. Le poesie, diceva un grande poeta della sofferenza, Paul Celan, sono come strette di mani. A queste mani felici subito si contrappongono gli intrecci delle dita fragili della donna presa nella conversione errata ma comune al pensiero femminile che trasforma spesso emozioni in paure (in Prendersi cura). Nella quinta sezione dal bellissimo titolo NE’ ORA NE’ QUI, si affermano i temi del viaggio, della migrazione, della moderna esperienza del movimento nel mondo che creano spaesamento, ma soprattutto, come ha scritto Marc Augè, delineano i non luoghi della nostra modernità: come gli aeroporti, le panchine, i caffè, posti in cui tutti i frequentatori sembrano uguali e felici di un anonimato omologante. Si è In attesa, ovvero in una poesia dove le immagini che si imprimono nell’occhio e nella mente del viaggiatore per mare fanno ancora sognare una meta, o fanno comunque desiderare di averne una certa, definitiva: Le vele sussurrano al vento: Quando partiremo per la felicità? / Vorrei tornare a casa, se ne avessi una. Una casa che in Spaesamento parigino si rivela però di eremita / Porta priva di campanello / Bussare non serve / None to accompany me. E qui si innesta il lamento su Felicità all inclusive / Per anime escluse di Panchine berlinesi che ritroviamo in Departure e Arrival, come inizio e conclusione di un viaggio in cui realmente si sperimenta un tempo quasi troppo comune per concorrere alla determinazione di un “qui e ora”. Queste forme della modernità, questa nuova ancora poco detta realtà umana, deve trovare le parole per dirsi, deve aprire la ferita del presente con le sue angosce e inquietudini, con la sua solitudine troppo mascherata da facili condivisioni virtuali e trovare le proprie parole, la propria antropologia poetica. La poesia che conclude la raccolta si intitola Filologia dell’amato e si imprime ancora una ruga tra i versi, all’angolo degli occhi, mentre accenni a errori infantili / E l’incuria dei tuoi adulti quanto l’Abbreviazione di un dolore antico danno labili indizi per una decifrazione chiara dell’oggetto del desiderio. Ma insistere sulla filologia amorosa sarebbe inutile, perché, conclude la poesia e la raccolta: Al lettore smarrito / La pagina sussurra: sappi capirmi / Ma mai fino in fondo. Insistere condurrebbe forse a un errore ermeneutico o di deduzione, bisogna accontentarsi di accenni, come per Ovidio, che per error e carmen mai chiariti fu condannato alla relegatio, all’esilio da Roma, e sebbene si abbia il diritto di continuare a sondare il dolore, la gioia, l’amore o come dice la poetessa “l’irreparabile della nostra vita”, del mistero della pacificazione e della cura della ennesima piaga del corpo si occupa e si occuperà sempre la poesia. Il libro TRISTIA STATI DI USUALE SCONFORTO ha vinto il premio internazionale Antica Pyrgos 2020, sezione silloge poetica inedita. Fosca Mariani Zini insegna filosofia del Medioevo e del Rinascimento all’Università di Tours, in Francia. Ha pubblicato: L’économie des passions. Essai sur le “Décaméron” de Boccace, 2012; La pensée de Ficin. Itinéraires néoplatoniciens, 2014; La calomnie. Un philosophème humaniste. Pour une préhistoire de l’herméneutique, 2016 ed edito con G. M. Müller, Philosophie in Rom-Römische Philosophie. Kultur-literatur-und philosophiegeschichtliche Perspektive, Berlin, 2017.
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