di Augusto Ciuffetti Quelle delle aree interne da rigenerare[1], dei piccoli paesi invisibili[2] posti in spazi marginali alla ricerca di un possibile futuro, di una montagna - nello specifico la dorsale appenninica - ripetutamente colpita da disastri naturali (terremoti e alluvioni), che si sommano alle crisi sociali generate dalla perdita continua di abitanti e da processi come l’invecchiamento della popolazione sono, ormai, delle questioni di “lungo periodo”. Il prossimo anno ricorre, infatti, il decennale del lancio di una politica allora giustamente ritenuta innovativa e di fondamentale importanza: la Strategia nazionale delle aree interne (SNAI), promossa dall’Agenzia per la coesione territoriale. Oltre alla definizione delle aree pilota, delle azioni da intraprendere e di alcuni interventi specifici, nel loro insieme, a distanza di dieci anni (che per una politica territoriale destinata nell’immediato a ribaltare le tendenze economiche presenti in territori considerati periferici rappresentano un lasso di tempo importante), la SNAI non ha ancora prodotto il cambiamento auspicato.[3] Sicuramente essa ha tracciato un percorso nel quale ora si inseriscono - secondo logiche molto discutibili - anche i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma si è ancora in attesa di risultati concreti, misurabili nella loro efficacia. Le direttive che orientano il PNRR sono rivolte, infatti, a incentivare singole progettazioni, singoli luoghi, senza tener conto della dimensione territoriale nel suo complesso. Senza considerare le esigenze locali, spesso viziate da interessi particolari, l’efficacia di un intervento rischia di essere vanificata proprio nel momento in cui si decide di procedere a un’artificiosa separazione tra il villaggio oggetto di finanziamento e il suo contesto geografico.[4] Nel frattempo, su questi temi, è progredito un dibattito particolarmente intenso e articolato, capace di coinvolgere diversi settori della società italiana: studiosi di ogni genere, accademici, amministratori, politici e anche poeti e letterati, tutti pronti a fornire personali ricette salvifiche, oppure a riesumare mondi ormai scomparsi, sull’onda di una malcelata nostalgia spesso fine a se stessa, nonostante l’individuazione di originali percorsi di ricerca e riflessione, che molto insistono su ritrovate identità dei territori.[5] In ogni caso, l’ampiezza di questo dibattito, pur considerando i suoi limiti e le sue contraddizioni, dimostra la centralità e l’importanza assunte dalla questione delle aree interne, verso una chiara consapevolezza del ruolo che queste ultime e gli spazi montani, in particolare, sono chiamati a svolgere nei prossimi decenni sul fronte dell’ambiente, dal cambiamento climatico alla riconversione energetica, tenendo conto della contemporanea crisi di quei modelli urbani e industriali che hanno sorretto la crescita economica dell’Italia dal suo “miracolo” in poi. Le più recenti indagini sulla povertà pubblicate in Italia indicano non solo un forte aumento di quest’ultima in termini assoluti, ma anche una sua maggiore incidenza all’interno delle città più grandi e sovraffollate.[6] In questa prospettiva, dunque, i paesi spopolati delle aree interne possono giocare un ruolo decisivo, come nuovo spazio di accoglienza, pur considerando le altre forme di disuguaglianza che li caratterizzano. Se i centri montani o delle aree interne vengono dotati dei servizi di cui necessitano (sanità, istruzione, collegamenti con l’esterno non solo attraverso le reti informatiche), potrebbero recuperare una loro centralità anche rispetto alla “cura” delle nuove forme di povertà. È proprio in considerazione di questa inedita centralità dei paesi interni, nello specifico della dorsale appenninica, che appare necessario fissare alcuni termini del dibattito, per fare in modo che esso assuma un profilo più corretto e concreto. Un primo elenco di nodi o punti si può costruire rispondendo alle seguenti domande: a cosa serve la storia? Nelle aree interne si vive nei borghi o nei paesi? Che tipo di progettualità serve per rilanciare i paesi? Quale contributo possono dare le comunità locali? Alle relative risposte si possono aggiungere, infine, delle riflessioni conclusive su quello che dovrebbe essere lo scenario territoriale (circoscrizioni amministrative e politica), nel quale collocare ipotesi e modelli volti a stabilire nuovi equilibri economici e sociali. Per immaginare il futuro dei paesi dell’Italia interna è indispensabile partire dalla loro storia, in modo da fissare identità e caratteristiche. I progetti realizzati in modo standardizzato, senza tener conto delle peculiarità dei territori, colte nelle diverse stratificazioni storiche, non producono mai alcun risultato. Nella maggior parte degli interventi elaborati fino ad oggi, invece, l’analisi storica è quasi sempre relegata a un ruolo subalterno o semplicemente introduttivo. Nonostante si richiami la necessità di procedere con attente ricostruzioni storiche degli spazi economici e sociali, queste ultime sono sempre superate, disattese o totalmente dimenticate, nelle successive fasi dei percorsi progettuali.[7] La decontestualizzazione storica di questi ultimi, che molto spesso diventa anche geografica, costituisce un grave errore di prospettiva, che non può che condurre al fallimento di ogni intervento concepito o condotto in questo modo. In altre parole, non serve a nulla riproporre modelli già codificati e basati su una generica idea di sviluppo poco rispettosa delle caratteristiche di un territorio, sia sul piano ambientale e paesaggistico, sia in riferimento a usi, costumi, modalità e forme di regolamentazione e accesso alle risorse, che derivano sempre da processi storici di “lungo periodo”. La centralità dell’Appennino nei secoli del basso medioevo e dell’età moderna, i suoi caratteri originali (pluriattività, mobilità, gestione collettiva delle risorse naturali attraverso comunanze e università agrarie) e la sua dimensione come spazio alternativo dovrebbero rappresentare, invece, le basi di ogni progetto.[8] È da una lettura del tutto esterna alla realtà dell’Appennino, funzionale solo ed esclusivamente alle esigenze omologanti delle città e delle loro culture, che deriva anche l’uso del termine borgo, in sostituzione di quello tradizionale e più aderente alla storia rurale italiana di paese, privato di ogni riferimento storico e calato dentro una contemporaneità che semplifica e banalizza.[9] È quanto accade, del resto, anche con l’espressione area interna, la quale identifica degli spazi connotati in passato in vario modo: marginali, arretrati, periferici, montani. L’esistenza di zone disagiate o fragili[10], a seconda della lettura che di queste aree si vuole dare, non costituisce una novità giunta a maturazione solo negli ultimi decenni. Si tratta, ancora una volta, di una realtà che ha una sua precisa dimensione o matrice storica, destinata a trasformarsi nel tempo e di cui sarebbe opportuno tener conto.[11] L’uso del termine borgo risponde a logiche urbanocentriche, le quali guardano alla montagna e alle aree interne appenniniche in nome di un utilitarismo che vuole semplicemente strumentalizzare questi spazi come ancore di salvezza, valvole di sfogo per città ormai invivibili. In questa chiave, il bel borgo ristrutturato rischia di diventare un possibile riferimento solo per un’élite sempre più ristretta e non la risposta alle esigenze concrete di un’intera società. Da tutto ciò ne consegue che la progettualità rivolta ai paesi della dorsale appenninica non possa che avvenire all’interno dei paesi stessi, mediante un processo di partecipazione da parte di tutti gli abitanti. Tale prospettiva implica il definitivo superamento di una condizione di subalternità o di inferiorità fatta propria da chi abita nelle aree marginali, per effetto di modelli esistenziali forti e totalizzanti imposti dagli stili di vita maturati nelle grandi città. In definitiva, si tratta di superare il fenomeno dello spaesamento, alimentato dai processi migratori e dalla difficile resistenza di coloro che decidono di rimanere.[12] Si tratta di invertire lo sguardo, quindi le letture e ogni visuale, partendo in chiave critica proprio dagli spazi marginalizzati, come giustamente si sostiene nel Manifesto per riabitare l’Italia.[13] Rispetto ai grandi disegni, dunque, ai paesi servono dei progetti più adeguati e maggiormente calati nelle loro realtà, partendo dalle stesse comunità e dalle loro articolazioni interne. È soltanto in questo modo che si può definire un insieme di interventi non solo capace di resistere nel tempo e di offrire concrete opportunità ma anche di salvaguardare l’ambiente. Come giustamente si sottolinea in riferimento a una realtà dell’Irpinia, ma con un valore più ampio, […] per fermare lo spopolamento e risollevare le sorti dei borghi del margine è necessaria un’azione chirurgica, minuziosa, diffusa, che crei un’inversione dello sguardo, culturale ancor prima che di sviluppo.[14] Ciò che si richiede è un’azione molecolare, pensata per ogni luogo, ma che abbia sempre come riferimento generale le questioni che investono tutti i centri abitati delle aree interne, dalle politiche per la casa (comprese quelle legate a terremoti e alluvioni) ai servizi di ogni tipo, dalla creazione di spazi pubblici e infrastrutture, alla definizione di nuove attività produttive, in una visione che dalla società nel suo complesso abbia poi la capacità di raggiungere ogni singola persona. In questa direzione, il contributo delle comunità locali è fondamentale, se a queste ultime viene data la possibilità di elaborare dei progetti originali, tali da configurarsi come dei veri e propri laboratori dal carattere innovativo. Negli ultimi anni, numerosi sono i progetti, soprattutto grazie a gruppi di giovani fortemente motivati a rimanere nei loro paesi, o che hanno deciso di ritornare a vivere nelle aree interne, che sono maturati in Italia. Non si tratta della semplice riscoperta di attività agricole o silvopastorali in una chiave più moderna, ma anche di nuove forme di turismo e di percorsi imprenditoriali, magari caratterizzati dalla valorizzazione di antichi mestieri, destinati a ritagliarsi degli spazi significativi nelle dinamiche economiche globali. In definitiva, sono queste molteplici esperienze, molto diffuse lungo la dorsale appenninica e quasi sempre elaborate in una dimensione collettiva (cooperative di comunità, attività legate ai beni comuni, imprese sociali, comunità energetiche, imprese legate alla dimensione del paese con la partecipazione attiva degli abitanti)[15], a indicare possibili percorsi futuri e a rendere evidente ogni differenza tra borgo (l’idea di un villaggio come merce in un quadro di relazioni che rispondono solo alle esigenze dei territori “forti” della penisola italiana) e paese (il villaggio come sede di relazioni locali, che progetta e sperimenta per la sua sopravvivenza, attingendo alla sua storia e alle sue tradizioni, impegnato a difendere i suoi equilibri ambientali e a opporsi a qualsiasi forma di sfruttamento): […] la pervasività borgo-centrica, la borgomania, separa invece di unire, spezza il rapporto vitale tra l’insediamento e il suo intorno, persegue la polarizzazione contro il policentrismo, congela la lunga e contrastata storia dell’insediamento umano nel nostro paese, in favore di una fissità senza tempo che è il contrario della storia e annulla la geografia dei luoghi, come se i borghi potessero esistere senza le relazioni con le aree che li circondano[16]. Tutto questo significa che, ben oltre la retorica utilizzata negli ultimi anni per descrivere i paesi delle aree interne, questi ultimi restano dei luoghi difficili dove vivere, dai quali si parte e si ritorna, accettando un’esistenza fatta di continui adattamenti rispetto a tutto ciò che manca.[17] Il loro orizzonte è quello dei paesaggi dell’abbandono o scartati, perché non in linea con le dinamiche di mercato o di produzioni industriali e agricole fortemente massificate.[18] Progettare in questi luoghi partendo dal “basso” vuol dire, in definitiva, superare le disuguaglianze sociali e territoriali. Se lo schema che si propone è quello di un netto rifiuto di ogni logica omologante, insita nelle idee e negli interventi pensati in un altrove diverso dalle aree interne, a favore di piccoli processi di trasformazione gestiti localmente, allora ciò che le istituzioni politiche e accademiche sono chiamate a fare è di facilitare e guidare tali processi, rendendo fattibile la loro realizzazione in tempi relativamente brevi. Molto spesso, infatti, i paesi dell’Appennino non hanno le competenze e gli strumenti necessari per accedere alle fonti di finanziamento. Alle istituzioni politiche non si chiedono progetti, bensì validi strumenti operativi, per fare in modo che venga superata e annullata ogni forma di residualità. Un significativo sostegno in tal senso può arrivare anche da una “rivisitazione” delle circoscrizioni amministrative, in modo da rendere più omogeneo, almeno da questo punto di vista, lo spazio montano interno. Un’ipotesi certamente difficile da attuare, ma l’unica in grado di assicurare provvedimenti più mirati ed efficaci e regimi fiscali più adatti per gestire la complessità e la fragilità di questi territori. La destrutturazione dell’apparato amministrativo periferico, con il superamento di comunità montane e province, di certo non ha favorito la coesione territoriale, a vantaggio delle aree metropolitane e dei loro problemi. Si tratta di una questione che potrebbe trovare un’adeguata collocazione all’interno dell’attuale dibattito politico sulle autonomie, da sempre condizionato dal solito dualismo nord-sud. In altre parole, c’è bisogno di nuove e radicali politiche pubbliche, ma ciò, inevitabilmente, mette in gioco una classe dirigente italiana non sempre all’altezza delle situazioni, sia a livello centrale, sia in sede periferica. In questa fase storica, la debolezza delle aree interne emerge anche rispetto ai costi da sostenere per la transizione energetica. Il tema è particolarmente complesso e si somma alle agevolazioni concesse e alle pratiche permesse, nel corso degli ultimi anni, alle zone più densamente abitate della penisola italiana, di attingere alle risorse della montagna: acque, boschi e ambiente in generale. Per essere più forti e quindi più aperti e accoglienti, i paesi dell’Appennino hanno bisogno di recuperare peculiarità e identità, ma nello stesso tempo è necessario ricucire anche i rapporti e le relazioni con altri territori. Si tratta di una prospettiva che deriva anch’essa dalla storia plurisecolare della dorsale appenninica. Se dal medioevo in poi, le montagne stabiliscono saldi legami con le pianure attraverso i pastori transumanti, i lavoratori che emigrano stagionalmente e i venditori ambulanti, integrando diverse economie e spazi profondamente diversi sotto il profilo geografico, oggi queste relazioni vanno stabilite di nuovo con le città costiere e delle vicine aree collinari. Si tratta di ricucire una fitta rete di trame e interdipendenze che tra mondo rurale e ambito cittadino esistono fin dal basso medioevo. La prospettiva non può che essere quella della costruzione di una nuova alleanza tra montagna e pianura, tra entroterra e costa, funzionale alla definizione di equilibri economici, demografici e sociali indispensabili a tutti. Un’alleanza di questo genere, da sempre presente nelle articolazioni geografiche della penisola italiana, è venuta meno durante gli anni del “miracolo economico”, il quale ha spezzato ogni possibile rapporto, isolando le aree interne e trasformandole in spazi arretrati e marginali, destinati a fornire manodopera mediante continui processi migratori. Alcune ipotesi di ricucitura avanzate recentemente transitano da neologismi, come metromontagna, che in realtà identificano qualcosa di molto antico.[19] In definitiva, queste prospettive, ipotesi e chiavi di lettura passano tutte dentro la definizione di paese, l’unica in grado di contenere una complessità sociale, delle articolazioni economiche e una profondità culturale, ma soprattutto una concretezza, che sfuggono totalmente alla parola borgo. --- 1. Si veda M. Marchetti, S. Panunzi e R. Pazzagli, a cura di, Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017. 2. A. Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, il Saggiatore, Milano 2022. 3. S. Lucatelli e F. Tantillo, La strategia nazionale per le aree interne, in A. De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni riconquiste, Donzelli, Roma 2020, pp. 403-416; S. Lucatelli, D. Luisi e F. Tantillo, a cura di, L’Italia lontana. Una politica per le aree interne, Donzelli, Roma 2022. 4. Senza entrare, in questa sede, nel merito delle ampie criticità presenti nei processi di selezione di ventuno borghi destinatari di progetti e finanziamenti, si veda C. Chiapperini, E. Montenegro e G. Viesti, Ventuno fortunati borghi, in F. Barbera, D. Cersosimo e A. De Rossi, a cura di, Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli, Roma 2022, pp. 161-168. 5. Si veda quello più recente sul cibo, promosso dalla Fondazione Appennino, ma esclusivamente legato a ricette e ricordi: AA.VV., Buon Appennino. La cultura del cibo nell’Italia interna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022. In chiave storica, ma sempre critica sull’uso del cibo in riferimento al rapporto tra società moderna, consumismo e aree interne, mi permetto di rimandare ad A. Ciuffetti, Cibo, mestieri e spazi sociali nell’Appennino centrale, in «Marca/Marche. Rivista di storia regionale», n. 18, 2022, pp. 145-160. 6. Si veda l’ultimo rapporto della Caritas Italiana, F. De Lauso e W. Nanni, a cura di, L’anello debole. Rapporto 2022 su povertà e esclusione sociale in Italia, Edizioni Palumbi, Teramo 2022. 7. Un esempio: nel progetto Nuovi sentieri di sviluppo per l’Appennino marchigiano dopo il sisma, definito dalle università di Urbino, Camerino, Macerata e Ancona (Università Politecnica delle Marche), in accordo con il Consiglio regionale delle Marche, e nel Patto per lo sviluppo e il sostegno alle aree colpite dal sisma, che si collocano nel percorso metodologico della SNAI, i brevissimi e schematici richiami storici non sembrano avere alcun collegamento con i percorsi di ricostruzione e di rilancio economico previsti. Si veda I. Pierantoni, D. Salvi e M. Sargolini, a cura di, Nuovi sentieri di sviluppo per l’Appennino marchigiano dopo il sisma del 2016, Consiglio regionale delle Marche, Ancona 2019. Si veda anche M. Sargolini e I. Pierantoni, Per una rinascita delle aree interne dell’Appennino centrale. Il caso studio dell’area del “Nuovo Maceratese”, in «Glocale», n. 13, 2017, pp. 39-58. 8. Mi permetto di rimandare ad A. Ciuffetti, Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea, Carocci, Roma 2019. 9. In tal senso, Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, cit. 10. A. Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino 2016. 11. Si veda R. Biasillo, Dalla montagna alle aree interne. La marginalizzazione territoriale nella storia d’Italia, in «Storia e futuro», n. 47, 2018, in http://www.storiaefuturo.eu/dalla-montagna-alle-aree-interne-la-marginalizzazione-territoriale-nella-storia-ditalia. 12. Oltre al saggio di A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012, si rimanda alla vasta produzione di Vito Teti, in particolare ai seguenti testi: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2004; Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma 2017; La restanza, Einaudi, Torino 2022. 13. D. Cersosimo e C. Donzelli, a cura di, Manifesto per riabitare l’Italia, , Donzelli, Roma 2020, pp. 3-10. 14. S. Ventura, Teora, Irpinia. Un progetto per ripopolare l’Appennino, in Aree interne e comunità. Cronache dal cuore dell’Italia, a cura del Collettivo Print, Pacini editore, Pisa 2022, p. 71. 15. Il volume citato nella precedente nota si configura come una sorta di catalogo delle esperienze di questo genere che stanno interessando le aree fragili o interne della penisola italiana. 16. F. Barbera, D. Cersosimo e A. De Rossi, Il paese dei borghi. Introduzione, in Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, cit., p. X. 17. V. Teti, Paese, in Manifesto per riabitare l’Italia, cit., pp. 171-176. 18. Si vedano i due saggi F. C. Nigrelli, Il paesaggio scartato. Una risorsa formidabile per le città in affanno e le aree interne, e R. Pazzagli, Paesaggi dell’osso. Le aree interne italiane tra abbandono e rinascita, in F. C. Nigrelli, a cura di, Paesaggi scartati. Risorse e modelli per i territori fragili, Manifestolibri, Roma 2020, pp. 31-60 e 61-79. 19. F. Barbera e A. De Rossi, a cura di, Metromontagna. Il progetto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2021.
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