di Giuseppe Castrillo E' un incontro sorprendente quello che ci procura il volume curatissimo di Alberico Bojano dedicato a Gioacchino Toma: Gioacchino Toma. Sorvegliato politico tra artisti, sotterfugi e nobiltà, edito da Guida editori, nel dicembre del 2017. Lo studio fa luce su un periodo della vita del pittore, poco noto al grande pubblico, e tuttavia legato ad una realtà geografica, non ancora del tutto investigata dagli studiosi, ancorché suggestiva e carica di memorie[1]; che lumeggia sull’intera attività artistica ed accademica del salentino; che suggerisce a chi è solito comparare tra loro varie discipline o scavare nella funzione culturale di un personaggio, originali spunti per nuovi approfondimenti. Il volume lascia adito, infatti, a incursioni nell’ambito letterario, negli obiettivi della politica culturale del periodo preso in esame. Incursioni permesse al lettore grazie ad un’originale disposizione tipografica del testo, che si specchia nelle note a margine doviziose e dotte. Il periodo vissuto dal Toma, tra Piedimonte e San Gregorio Matese, dal 1857 e il 1858 stabilmente e poi in modo saltuario fino al 1860, ci riporta nell’ambiente di una cittadina che si prepara, forse ancora inconsapevolmente, ad un trapasso politico e storico: quello unitario. Viene ricostruito l’ambiente dei galantuomini e dei nobili della città; il groviglio di rapporti umani che stringe tra loro famiglie che diverranno determinanti sia nella fase del passaggio di consegne, per molti aspetti, devastante, dal Borbone ai Savoia; sia nella fase di normalizzazione che si snodò, anche in forme cruente, per un decennio e più. Vengono fuori i profili di signori e feudatari: in particolare i Caso di San Gregorio e i Gaetani di Piedimonte. Questi ultimi, antichi e illuminati signori di Piedimonte, di cui avevano marcato decisamente le tappe storiche[2]. C’è nel volume una ricerca attenta di un ambiente sociale, sorretta dall’intelligenza partecipe di chi conosce, frequenta e ama i luoghi del confino del Toma, e ne approfondisce da anni, con attenti studi scientifici, la storia, la civiltà, il dialetto. La lettura della vita dell’artista non si limita al solo studio delle opere, ne coglie l’umanità, la psicologia. Viene percepita, nella sofferenza esistenziale del pittore, l’umana gentilezza che si accompagna ad una rassegnata visione della vita. Specie nella seconda parte, poi, è disegnato il clima culturale di una città, Napoli, che dopo l’unità cambia decisamente pelle[3]. Nella capitale, che non può più fregiarsi di questo titolo, si vanno affermando, sul piano artistico, oltre il Morelli, il Michetti, il Mancini, “i pittori del sermone e della barzelletta”[4]. Il Toma vi occupa una sua posizione solitaria, “assorto in un suo pensiero della storia che si intreccia con la vicenda umana e non la trascende”[5]. L’autore del volume registra, fin da un dipinto piedimontese del 1858, In casa del fattore, lo sguardo del pittore salentino, interessato alla “vicenda umana”. La chiosa dello studioso apre uno squarcio sul futuro mondo del pittore: ”Persone dimesse, inconsapevoli personaggi della sensibile attenzione al mondo della maternità, che Toma forse avverte di possedere per la prima volta entrando nel modesto ambiente contadino della campagna piedimontese”[6]. La data dell’opera è fondamentale: segna l’avvento di una presa di coscienza, anche se forse ancora incerta, che anticipa temi e propositi che vagolano nella mente del pittore e che sedimenteranno e diventeranno prove tangibili e sicure più tardi. Piedimonte e San Gregorio rappresentano una sorta di laboratorio per il giovane sorvegliato politico che, senza scuola, si fa le ossa con la ritrattistica e le nature morte. In questo periodo il tema della sofferenza, che tra l’altro lo riporta alle “tragiche esperienze della giovinezza dolorosa”[7], si fa spazio, anche se in forme ancora acerbe. Giustamente Bojano ha notato che accanto ai ritratti dei signori, che gli permettono una certa tranquillità e un margine di libertà, durante il confino piedimontese, nascono opere sacre come il San Francesco, ritratto con le stimmate, che trasuda dolore affinato dallo “struggimento”. Viene sottolineata non solo la commistione di colore, “dominato dalla tonalità del bruno e del marrone”, ma anche il “lampeggiare” del rosso[8]. Nel San Francesco, che si pone su un versante opposto ai ritratti dei signori del luogo, si potrebbe cogliere il tormento esistenziale di una biografia che certo non fu avara di dolore, al punto che la sofferenza si ritrova in altre opere, sempre modulata con un tono rassegnato, priva di esacerbazione. Bojano è sempre attento alla finezza narrativa e pittorica che si ritroverà anni più tardi nel Ritratto del figlio morto del 1881, e che esprime la cifra umana e stilistica di un’intera vita. Infatti lo studioso è colpito dalle “pennellate rapide”, che riprendono gli ultimi istanti del piccolo, e che “rendono la raggiunta maturità di Toma … e soprattutto l’autentica dolorosa umanità che ormai riusciva a far vibrare nelle sue tele”[9]. La lettura critica dell’opera del pittore di Galatina, si inserisce negli interessi storici dello studioso[10], in particolare quelli dedicati alla tormentata e sanguinosa fase pre e post-unitaria. Gioacchino Toma è un personaggio che si trova catapultato nella storia, forse malgré-lui, e che sceglie le truppe garibaldine sul Volturno, combattendo contro quell’Antonio Gaetani di cui era stato ospite e ritrattista nello splendido, un tempo, Palazzo Gaetani. Egli condivide con Beniamino Caso e con Achille del Giudice le sorti della Legione del Matese[11]. Dell’esperienza della guerra, però, a Toma importano più le scene di vita con evidenti richiami sociali, come nel quadro I piccoli patrioti, noto anche con nomi diversi[12], in cui, insieme “alla piacevolezza descrittiva del gioco della guerra”, si percepisce la cura “di evidenziare, nell’abbigliamento, la differenza di classe sociale”[13]. Toma riesce a far tralucere, attraverso i suoi quadri, il “doppiogiochismo dei galantuomini della seconda ora, improvvisatisi liberali per accodarsi alla violenta annessione sabauda e coglierne i frutti”[14]. Le pagine ricostruiscono le fasi di una società che si va sfilacciando e lo fanno con occhio vigile alla pittura del Toma, che “ribalta sullo spettatore la scelta di campo”[15]. Sicuramente interessante è il capitolo 10: Un decennio silente . Si dà ampio spazio al decennio che il Toma vive quasi ai margini della pittura, ed in cui si sceglie per sé una nuova dimensione lavorativa: organizzatore e maestro di nuove professioni, di mestieri legati alla produzione artistica. E’ centrale, in questo capitolo, la pagina dedicata ai rapporti tra il pittore e Francesco Dall’Ongaro. Lo scrittore, trevigiano di origine, operatore culturale nella Firenze delle edizioni Le Monnier, coglie la novità di un esperimento che si snoda tra studio e lavoro, applicazione mentale e capacità manuale[16], e che è foriero di nuove prospettive per l’occupazione in una Napoli “che, non più capitale del regno, sta lentamente adattandosi al suo nuovo ruolo di periferia sabauda”[17]. Il pittore, proprio sulla spinta di quegli anni di studio e di riflessione, va maturando una nuova visione de mondo, cui lo avvicinava l’incontro con Dall’Ongaro: è una presa di coscienza non solo esistenziale ma anche artistica. Toma, infatti, nella sua autobiografia, Ricordi d’un orfano, fissa una connessione tra scelte di vita e orientamenti artistici[18]. Sul finire degli anni ’60, l’incontro con il Dall’Ongaro apre in Toma altri spiragli. L’importanza dello scrittore negli sviluppi dell’osservazione e del racconto del vero è un dato di fatto[19]. Si sarebbe potuto aprire un fruttuoso sodalizio, se il letterato non fosse morto nel 1873, dopo aver dovuto rinunciare ad un incarico universitario presso l’ateneo napoletano. Il pittore ritorna alla sua vocazione con opere che guardano in faccia quell’intreccio di realtà e sentimento, senza chiasso, in garbato e silenzioso isolamento rispetto ai maestri napoletani che ruotano intorno al Morelli. Questi, che sembrava un promotore del vero, in realtà favorisce esiti in piena consonanza con una pittura accademica. Già nell’introduzione del volume che stiamo leggendo, era stata presentata questa posizione, sottoponendola ad un attento vaglio critico, e viene ribadita, in più punti, quasi a voler ricostruire i contorni di una personalità schiva e sincera che fa del “vero”, il “soggetto” di tutta la sua attività[20]. Oltre che l’impegno sul piano della formazione al lavoro per le giovani generazioni, è questo occhio nudo sul reale, sul vero che colpì il Dall’Ongaro. L’opera del Toma, nella ricostruzione del Bojano, si affranca dai temi di scuola, dalla ripetitività della pittura sgargiante, cui indulgono alcuni autori, e si immerge in un mondo che sente suo e nel quale si riconosce. Potrebbe essere che le nuove strade, che la letteratura nazionale va prendendo, stiano arrivando fino al quartiere Stella del rione Sanità, o nella Scuola serale operaia di Montecalvario. Nascono così opere che trovano giusto rilievo in questo originale volume sul Toma: Luisa San Felice in carcere; La madre nutrice; e più tardi I funari di Torre del Greco. Ma c’è un’opera che all’autore di questo prezioso contributo interessa particolarmente sia perché rappresenta un interno borghese inquadrato con uno sguardo efficace e “naturale”, nello “star raccolti” di signori in primo piano e di servitori, in ombra ma ben presenti, “contigui ma non confusi tra loro”; sia, soprattutto, perché permette all’autore del quadro di “trarre dalla memoria quel tempo felice” trascorso tra le contrade del Matese e a casa Gaetani. Si tratta de La messa in casa del 1877. Viene, e giustamente, dedicato ampio spazio a questa tela, di cui si riscostruisce con perizia l’occasione immediata: la commemorazione della morte di Antonio Gaetani amico e protettore del pittore, avvenuta in casa, alla presenza del fratello Raffaele Gaetani che si sarebbe suicidato tre anni prima della realizzazione dell’opera. In questo quadro, Bojano vede il ricomparire, in una dimensione storica ed affettiva, di un mondo del quale Toma fu parte e, a conti fatti, non piccola né occasionale. Antonio e Raffaele Gaetani, Beniamino Caso e Achille del Giudice, furono in modi e tempi diversi ospiti e benefattori del pittore salentino, che nella Messa in casa raggiunge una “finezza” interpretativa attraverso una tavolozza umile e delicatissima”[21]. La Messa in casa, par di capire dall’acribia dello scrittore che ce ne parla, è una specie di summa degli interessi del pittore rivolti al racconto dal vero, a cogliere stati d’animo, a seguire il corso sotterraneo delle sensibilità, a rievocare tempi e luoghi trasformatisi in memoria e affetto. Tempi e luoghi che pulsano nell’intelligenza di Alberico Bojano, che in questo volume squarcia altri veli sulla storia delle comunità matesine. NOTE [1] Cfr. F. Comparone, Vedute del Matese. J. Philipp Hackert e R. Colt Hoare a Piedimonte (1790-1805), Pubblicazione curata dalla Banca Capasso Antonio SpA, Alife (CE), Ikone srl – Piedimonte Matese (CE), 2014. [2] E’ importante leggere, per questi intrecci, il titolo di un quadro piedimontese del Toma, sul quale ritorneremo: Il parto della moglie del fattore del duca di Laurenzana, amico carissimo di Beniamino Caso. Cfr. A. Bojano, Gioacchino Toma: Sorvegliato politico tra artisti, sotterfugi e nobiltà, Guida Editori, Napoli 2017, p. 57. [3] Si tratta di un clima ricostruito da Antonio Palermo in alcune significative e concentrate tessere, intitolate Variazioni su un mito, in A. Palermo, La tessera e il “puzzle”. Lettura della sociologia, Guida Editori, Napoli 1979. [4] G. C. Argan, Storia dell’arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze, 1970, p.202, riportata anche dal Bojano. [5] Ibidem. [6] A. Bojano, Gioacchino Toma, cit. p.57. [7] Ibidem. [8] “unico lampo di colore la stigmata sul dorso della mano destra: il rosso intenso di quella fessura lascia intendere il fuoco che arde sotto quella cute smunta”: cfr. A. Bojano, Gioacchino Toma, cit., p.61. [9] Ivi, p.110. [10] Cito alcuni titoli significativi: Briganti e senatori. Garibaldi, Pisacane e Nicotera nel destino di un senatore del Regno (Edizioni Guida, 1997); Squarci di vita brigante (Edizioni Photocity, 2011); Briganti, contadini, emigranti sanniti, «Notabili, clero, contadini, briganti nel Sannio beneventano postunitario», Benevento, Edizioni Rotary Club, 2001; senza considerare i numerosi saggi apparsi, a più riprese, sull’ “Annuario” dell’ASMV di Piedimonte Matese, o sulla “Rivista storica del Sannio”, e su altre rassegne prestigiose. [11] Cfr. A. Bojano, Gioacchino Toma, cit., p.77. [12] Ivi, p.78. [13] Ibidem. [14] Ivi, p.79. [15] Ibidem. [16] Ecco il racconto di Dall’Ongaro, tenuto con gli occhi e il gusto del reporter: “chi copiava una porta, chi una sedia in prospettiva, chi coloriva un disegno, chi lo applicava alla stoffa, destinata ad essere trapunta. Era una scuola ed un’officina a un tempo”. Cfr . A. Bojano, Gioacchino Toma, cit. p.86. [17] Ibidem. [18] Si ripromette il pittore di vivere: “come tanta gente, che col sudore, si procaccia, giorno per giorno, il suo tozzo di pane”. Citazione sulla quale insiste Bojano, Gioacchino Toma, cit. p.87. [19] Dall’Ongaro ha anche un ruolo importante nella riflessione sullo stato dell’arte e delle arti in Italia. Cfr. R. Bigazzi, I colori del vero, Nistri-Lischi, Pisa 1969, p. 73 n; p. 364, ed in particolare le pp.366-370. [20] Nell’Introduzione si legge: “Tracce di un pittore educato e schivo, discosto dal clamore di quell’enclave che sotto l’egemonia di Domenico Morelli prendeva il passo della disinibita borghesia sabauda, nuova classe sostitutiva della vecchia aristocrazia crollata sotto la vana fedeltà al Borbone”. Cfr. A. Bojano, Gioacchino Toma, cit., p.7. E più avanti non mancano le precisazioni per marcare nettamente una differenza di carattere e di atteggiamento nei confronti dell’arte e del vero: “di essa [ della scuola del Morelli ] tralascia qualsiasi impostazione formale e, rifiutando la ridondanza di donne discinte e menestrelli, attinge invece dal reale verismo che intravede nelle vicende incontrate tra la gente del quartiere in cui vive”, ivi p. 89. [21] Bojano riprende e, in qualche modo, fa suo il giudizio che il Salerno estende anche alle altre due opere del Toma presentate all’esposizione Nazionale di Belle Arti, Napoli 1877. Cfr. L. Salerno, Mostra di Gioacchino Toma Catalogo della mostra, a cura di L. Salerno, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1954, p.22.
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